Catia Capobianchi, “Caffe’ doppio”
28 gennaio 2018
di Catia Capobianchi
”Caffè doppio”
«Buongiorno!»
«Buongiorno!», rispose il barista.
«Vorrei un caffè doppio!»
«Sì certo subito, un bel caffè corretto!», attestò il barista.
«No, scusi!»
«Prego?», domandò indifferenze il barista, celando un'inquietante impazienza.
«Non ho chiesto un caffè corretto!», risposi insofferente.
«Ah! Allora un cappuccino?»
«No, forse non mi sono spiegato. Vorrei semplicemente un caffè doppio!»
Il barista mi osservò dubbioso. Saranno stati i bagordi della sera precedente, dove l'unica bevanda che gli tornò in mente fu un Martini più lungo che doppio, mentre gli occhi erano puntati sul davanzale della morona conosciuta in discoteca. Preso da estasianti pensieri, versò un Martini doppio in un bicchiere e, senza tanti preamboli lo posò sul banco.
Un altro cliente accanto dall'aspetto abitudinario, visto la naturalezza con cui si muoveva nel locale, sembrò molto coinvolto dalla scena che stava assistendo con molto interesse.
«Ehm scusi, credo che lei si stia confondendo, mi ha dato un Martini doppio!», sostenni innervosito.
Mi stavo agitando. Non capivo se si stava prendendo gioco di me o, veramente la sua mente era rimasta incollata a chissà quali pensieri.
Nel frattempo al cliente accanto, gli fuggì una sonora risata. Il barista lo guardò sinistro, poi rivolgendosi a me, ribatté con aria trasognata. «Che differenza c’è tra un Martini doppio e, un caffè doppio al mondo d'oggi? »
«Mah... », cercai di replicare.
«Suvvia è sempre doppio!», insistette il barista. Poi sporgendosi dal bancone con aria spropositamene famigliare continuò. «In confidenza le dirò, da quando faccio questo mestiere, ho visto più gente bere alcolici di mattina che caffè, anzi il caffè se lo bevono dopo, forse per riprendersi.»
«Senta, è ridicolo! », replicai confuso ma, trattenendo il controllo che era una mia caratteristica in situazioni imbarazzanti o, particolarmente combattuti. «Sono entrato in questo bar per ordinare un caffè doppio!»
«Sì, doppio!», replico l'habitué accanto, con aria ironica.
«È così difficile averlo?»
Le mie tempie pulsavano, sentivo il sangue correre su e giù in un ingorgo che da lì a poco, sarebbe eruttato come un vulcano.
«Bastava dirlo», replicò il barista.
A questo punto l'intruso intervenire, asserendo che quello che aveva appena detto il barista era vero, e di far parte anche lui della stessa cerchia.
«Quale cerchia?», chiesi attenuando i nervi tesi.
«Della prima cerchia, è ovvio!», rispose convinto l'intruso.
«Sì sì! », confermò il barista.
«E lei, lei di che cerchia è?», chiese l'intruso.
Mi guardai attorno smarrito. Poco più in la c'erano degli operai che stavano ingurgitano ogni ben di Dio, accompagnato il tutto da caraffe di birra. Esaminai l'ora sull'orologio appeso a muro, rilevando che erano le 11.30. Al mio fianco, una coppietta bisbigliava parole con gesti affettuosi. Li osservai più attentamente, notando le sue mani cercare quelle di lei che si divertiva a fuggirgli, per poi tornare docile in cerca delle stesse; un gioco di mani che attirò la mia indiscrezione per vari secondi. Presupposi che era una coppia affiatata; dalle occhiate in sintonia, le attenzioni e, soprattutto da come si cercavano rubando ogni istante il filo dei loro sguardi, come se volessero immortalare ogni frazione di vita.
«Ehi! Allora di che cerchia sei?», insistette impaziente l'intruso, mentre sorseggiava il vino.
Non diede peso alle parole. La mia attenzione si posò su una coppia di anziani seduti accanto, atteggiandosi come due adolescenti. I loro occhi brillavano di una luce intensa e, un fiume di parole li circondava in un mondo, dove nessuno sarebbe potuto entrare. Chissà – pensai, da quanto tempo erano li. Parlavano senza sosta, come se avessero il tempo contato; forse rammentavano il loro primo incontro o, forse parlavano dei figli, dei nipoti, delle disavventure, dei momenti di gioia. Comunque di qualsiasi cosa parlassero, tra di loro c'era complicità e, nonostante gli anni piovuti addosso, tanta tenerezza che mi colpì il cuore. Mi venne il dubbio: chissà magari non erano vecchi sposi che navigavano tra i ricordi di un passato ma, amanti. Sì amanti, che si leccavano le ferite sperando di avere il tempo di riprovare quelle emozioni, trascinate nella nebbia dal fiume della vita.
«Ehi? Sei connesso? Allora, mi vuoi dire di che cerchia sei? », perseverò l'intruso.
Di che cerchia sono? Pensai. Forse della prima.. ma non di quelli abituali, una via di mezzo. Ci fu un periodo, dopo che Sandra mi lasciò portandosi via ogni cosa, tranne una fotografia che ci ritraeva assieme – e che fu motivo di dolore più forte di tutto il resto; guardare ogni giorno quella foto dove credevo che lei fosse felice e che un giorno avremo costruito un futuro assieme più disegnato, magari mettendo al mondo un pargolo da coccolare, aumentava il dolore delle ferite che non si rimarginavano, e iniziò la mia odissea. Iniziai a farmi un drink prima di pranzo, a volte anche più di uno. Nei momenti di pausa scendevo al bar e ordinavo un prosecco, notando con il tempo, che la gente mi osservava bisbigliando tra loro. Capì che mi stavo tagliando le gambe e di quel passo la mia serietà sarebbe andata a farsi fottere nonostante i motivi personali ma, che non dovevano intaccare con la mia professionalità. Così decisi che finché non avessi superato quel periodo di dolore e sconforto, mi sarei allontanando in un locale fuori dalla struttura per lenire la sofferenza che mi attanagliava all'improvviso, facendomi rotolare nel ricordo del tempo che fu. Ma il destino è un arlecchino e non sai mai quale maschera indosserà, come agirà: sempre pronto a colpirti quando meno te lo aspetti. Fu cosi, che una mattina decisi di allontanarmi in un bar più distante.
«Dottò!» esclamò un tizio che ricordo di avere operato, a cosa o dove non mi sovvenne. Colpito e affondato - pensai.
«Glielo offro io un drink! Sa, le devo farei miei più sinceri complimenti!»
«Ah grazie ma le pare!», risposi esternando un sorriso a trentadue denti.
«Lei è il miglior mago dei bisturi! Pensi che la cicatrice si vede appena, e il mio ginocchio è più agile di quello di Roberto Bolle!»
Allora pensai - gli avrò ricostruito la lunula, si forse gli usciva la rotula. Però, non mi aspettavo tal elogio.
«La mia rotula è diventata una pallina da ping pong, reagisce perfettamente a ogni mio movimento.»
«Sono molto contento per lei, così finalmente avrà ripreso le sue attività!», risposi a tanta gratitudine.
«Beh dottò, sono ancora disoccupato.», sostenne calando il tono di voce.
«Oh mi dispiace, ma vedrà che la ruota della fortuna girerà dalla sua parte!», dissi poco convinto.
«Sì sì, come diceva mia nonna, la speranza è l'ultima a morire. E poi ora mi sento sicuro, forte, potrei tirare su un tir!»
«Beh magari non esageri, ah ah!»
Bevemmo il drink e il mio ex paziente si offrì per pagare, nonostante mi opponessi lui, insistette. «Dottò, una promessa è una promessa, questo glielo offro io!»
«La ringrazio, speriamo di incontrarci in tempi migliori.», risposi avvicinandomi per stringergli la mano.
«Sì dottò, mi ha fatto molto piacere rivederla. Allora al prossimo giro!»
«Quale giro? », chiesi.
«Una bevuta!», rispose guardandomi sottecchi. Forse lui sapeva più di me cosa cercavo in quel momento e in tanti altri: evasione, dispersione.
«Guardi che è un caso isolato.», dichiarai.
«Certo certo, la capisco benissimo. Sempre a lavoro, concentrazione, responsabilità, e mica è uno scherzo! Ogni tanto ci vuole un po' di tregua! »
«Le ripeto che lei si sbaglia. », insistetti.
«Dottò non si preoccupi, sarò muto come un pesce, ero spacciato con questo ginocchio. Lei è un maestro, una persona cordiale, no come alcuni che se la tirano solo perché sono dottori e ti guardano dall'alto in basso. E poi se gli domandi spiegazioni, ti rispondono con parolone, e se gli chiedi di spiegarti più semplicemente il problema o, ti guardano con aria d’insufficienza o ti fanno capire che sei troppo stupido per comprendere e, girano i tacchi voltandoti le spalle. A volte mi chiedo perché lo fanno e, se lo fanno solo per i soldi e per la carriera. Insomma non so come spiegarmi, alcuni sono acidi, anche se vai a pagamento, sa? Lei è diverso e le fa onore. Quindi, se capiterà da queste parti, sarà sempre mio ospite!»
Volevo tagliare corto, la conversazione mi stava irritando, anche sebbene la persona che avevo davanti, nonostante fosse di origini modeste, o almeno presumevo, aveva intuito e sapeva cogliere i miei pensieri celati dietro un camice che mi conferiva una certa importanza. Per quanto il paziente fosse gentile, mi aveva classificato nella cerchia. Appunto la cerchia.
Per non imbattermi nel tizio alquanto prolisso nonostante la buona fede, mi allontanai in un bar più distante per non inciampare in qualche altra conoscenza. Inventai subdolamente assenze improvvisate, che con il tempo divennero abitudini di cui non potei più rinunciare. Le mie bevute aumentarono, trovando conforto nell'ebrezza dell'alcool. Poi di seguito due caffè, per riprendere un aspetto conforme, sveglio. Le occasioni si susseguivano e sapevo che sarebbe arrivato il giorno, che avrei dovuto interrompere quella strada viziosa che mi avrebbe portato al degrado. Ma il pensiero di Sandra mi assillava, mi pugnalava, mi stordiva, facendomi cadere in una forte angoscia che solo grazie all'alcool si attenuava. Il tempo passò, e le mie uscite al di fuori della struttura ospedaliera divennero più frequenti, finché un giorno mi chiamarono dall'ospedale, e una voce severa mi rammentò i miei obblighi; un paziente era in attesa in sala operatoria. Di corsa uscì dal bar proiettandomi al reparto, ma quando arrivò il momento di operare le mie mani tremarono, cominciai a sudare e capì che non sarei riuscito a intervenire sul paziente. L'anestesista mi guardò con aria interrogativa, e così le infermiere e l'assistente. La testa cominciò a girare, persi il controllo e caddi a terra.
Fu un giorno che rimase stampato nella mente come una vite conficcata, che scavò il mio cervello frenando quella corsa verso l’autodistruzione, in un’insana meschina e falsa quotidianità.
Di mia iniziativa chiesi le ferie, inventando un’apparente morte di un caro cugino. Scelsi una meta a caso e volai sul Mar Rosso, per cercare di ritrovare me stesso, l'uomo sicuro di se: il dottore. Invece per giorni mi lasciai andare dai bagordi, quando una mattina ritrovandomi ai piedi del letto, capì che era giunta l'ora di riprendere le redini in mano. Mi curai e tenni duro, riscoprendo la fermezza delle mie mani. Specchiandomi sul piccolo specchio ritrovai un volto più sereno e, notai che il mio stomaco si era sgonfiato come un palloncino. Riacquistata una certa sicurezza, feci le valige e tornai a casa.
Ripresi a operare, i miei interventi ebbero successo, la mia dignità era riconquistata. Tutto procedeva per il meglio, quando una mattina uscendo dall'ospedale incrociai Sandra: un tuffo al cuore. Lei non mi vide, non si accorse di me che la seguì fino al reparto ortopedia. La vidi entrare in una stanza, sedersi accanto a un letto e baciare teneramente un uomo ingessato dalle gambe in giù. Era finita, le mie ultime speranze caddero in un pozzo senza più speranze. Mi sentì un cane, un perdente, pensando dove avessi sbagliato. Ma ormai qualsiasi cosa pensassi, non avrebbe avuto risposta se non logorare, straziare, ulteriormente il mio dolore ancorato al cuore.
Uscì a passo veloce dalla struttura dirigendosi automaticamente in un bar, più che convinto di farmi un drink, ma per quale strano motivo a me sconosciuto, ordinai un caffè doppio..
«Oh ci sei?», perseverò l'intruso e, petulante cliente con un’intimità che non ritenni giustificata.
I miei pensieri confusi annegarono in un mare rispecchiando un’amara realtà. Strattonato dall’insistenza del tizio, tornai sulla terra. Guardai il barista e il Martini doppio e, la mia mano lo afferrò bevendo tutto in un sorso. Poi rivolgendomi all’intruso risposi leggermente inebriato. «Della prima cerchia!»
«Ah ah! Lo sapevo, ti ho notato da quando sei entrato, ho l'occhio clinico io!», disse pavoneggiandosi nella sua materiale intuitività.
«Già», risposi. «e ora mi faccia un caffè doppio!»
Pagai e salutai quelli che sapevo, sarebbero divenuti compagni di distrazione e me ne andai sapendo che sarei presto ritornato. Prima di uscire mi voltai e, sorridendo amaramente ancora in conflitto con me stesso dissi. «Alla prossima! »
Il barista fece l'occhiolino all’habitué, che ricambiò maliziosamente.
News » Il racconto della Domenica | domenica 28 gennaio 2018
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