Le colonie passano, le strade restano. Libia, 1935-379/2/2023

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Le colonie passano, le strade restano. Libia, 1935-379/2/2023

di Giovanni Curatola

Se di tanto in tanto si rileggesse un certo passato togliendosi gli occhiali del pregiudizio, si troverebbero ricette perfettamente applicabili (aggiornandone ovviamente gli strumenti) al giorno d’oggi, scoprendo infatti anche che problemi o impasse attuali hanno già trovato, proprio allora in casi simili, soluzioni acute e, soprattutto, riproponibili. Uno di questi casi riguarda la Libia, le cui “ricette” prescritte dai "medici" italiani negli anni ’30, sarebbero applicabili (adeguandole ai tempi) a tanti problemi sociali, etnici e infrastrutturali attuali. Dell’Africa, come del vicino-medio Oriente.

Strappata militarmente alla Turchia nel 1912, la Libia rimase colonia italiana fino ad inizio 1943. E indubbio che di questi 31 anni, il periodo agricolo e industriale più avanzato, socialmente più pacifico, economicamente più florido, culturalmente più progredito e turisticamente più vivace, coincise coi 6 anni e mezzo di governatorato di Italo Balbo (gennaio 1934-giugno 1940).

Richiedendo menti organizzative capaci e oneste (che allora c’erano eccome, e il fatto che indossassero la camicia nera non ne sminuisce certo le virtù) e sforzi economici e logistici senza precedenti (che nessun altro paese civilizzato avrebbe compiuto per una colonia), in quegli anni Balbo riuscì:

  • a migliorare, e di parecchio, le condizioni economiche, sanitarie, lavorative, scolastiche e sociali in genere della popolazione (tanto italiana quanto indigena);
  • a strappare migliaia di ettari di deserto inospitale per trasformarli in giardini vivibili, esteticamente gradevoli e soprattutto produttivi;
  • ad aprire la colonia al nascente fenomeno turistico, mettendo su dal nulla alberghi, fiere, esposizioni permanenti, lotterie, competizioni e infrastrutture sportive, aree archeologiche (Leptis Magna e Sabratha su tutte), porti ed aeroporti;
  • ad integrare le provincie libiche (caso unico in 5 secoli di storia coloniale del pianeta) a territorio metropolitano, elevando pertanto giuridicamente i suoi abitanti locali al rango di cittadini italiani con tutti gli annessi e connessi (pensione inclusa);
  • a pacificare finalmente l’intera colonia, realizzando quella multi-etnicità armonica e laboriosa che, pur non essendo sempre tutta rose e fiori come le casse mediatiche del regime propagandavano, faceva comunque sì che italiani, arabi, cristiani cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani convivessero fianco a fianco senza particolari diffidenze o tensioni socio-razziali. Un clima che nei due precedenti decenni di dominazione italiana non si poté, né si volle, conseguire;
  • a colonizzare demograficamente il paese con 2 spettacolari e coreografiche migrazioni di massa che su più navi simultaneamente portarono dall’Italia in Libia dall’Italia 25.435 rurali (14.633 nel 1938 e 10.802 l’anno successivo). Con lo stesso copione già sperimentato nell’Agro Pontino, anche qui i contadini trovarono poderi nuovi ad accoglierli, un campo da coltivare che avrebbero riscattato in pochi anni divenendone proprietari, e 28 villaggi nuovi di zecca per la loro nuova vita in colonia (a cui si affiancarono 10 nuovi villaggi musulmani);
  • a fare di quello “scatolone di sabbia” con cui già allora veniva chiamata la Libia il paese africano più progredito sotto l’aspetto infrastrutturale, architettonico e ingegneristico. Portare l’acqua e installare città, villaggi, case coloniche e strade asfaltate dove precedentemente pietraie e deserti non consentivano alcuna permanenza di vita umana, non fu proprio (né lo sarebbe tuttora) un gioco da ragazzi.

Tutto questo già all’epoca costituì un “unicum” senza precedenti (soprattutto da parte inglese, la cui stampa ironizzava, stupendosi, su questi italiani che in colonia, anziché cannoni, sbarcavano vaccini e banchi di scuola), perché in netta antitesi col concetto secolare di colonia, che vedeva l'europeo colonizzatore di turno depredare la sua colonia anziché investire in essa capitali, beni e uomini.

Delle strutture e infrastrutture di quei 6 anni e mezzo in Libia, restano ancor oggi i tanti edifici e le tante opere pubbliche e private sorte nelle principali città (Tripoli, Bengasi, Derna, Sirte, Misurata) e i nuovi villaggi, di cui oggi alcuni parzialmente in rovina o abbandonati, ma allora dotati di uffici comunali, Chiesa o Moschea, Casa del Fascio, posta, negozio di generi alimentari, dopolavoro, ecc.).

Ma soprattutto, resta quella che fu ai tempi l’opera più impegnativa e mastodontica mai realizzata in terra africana: la strada litoranea che, percorrendo tutta la costa libica, unisce il confine tunisino ad Ovest con quello egiziano ad Est. Detta poi “via Balbia”, la grande arteria (1.824 km) fu realizzata ristrutturando e unendo tra loro i 1.025 km di tratti già esistenti mediante 799 km nuovi di zecca, realizzati in zone impervie (su tutte il deserto della Sirte) e con gran dispendio di energie per far arrivare acqua, farina e viveri (forniti gratuitamente da magazzini, depositi e dispense militari) e costruire alloggi mobili per gli operai. Questi, da contratto previsto dal decreto governativo n.8277 del 4 maggio 1936, lavoravano max 10 ore al giorno (in turni diurni e notturni) e avevano la stessa paga, italiani o indigeni che fossero, maggiorata rispetto a quella normale: da 6 a 8 lire per manovali non qualificati, da 8 a 10 per muratori, falegnami, fabbri e minatori, da 12 a 14 per motoristi, meccanici e cementizi.

L’idea di una grande litoranea che attraversasse tutta la Libia da un confine all’altro venne a personalmente a Italo Balbo ad Agheila, nella Sirte, nel febbraio del 1934, a solo un mese dal suo insediamento a governatore della colonia. Ne illustrò l’importanza militare, commerciale e turistica a Roma all’inizio del mese successivo, specificando che l’intera spesa non avrebbe gravato sul bilancio nazionale ma sarebbe stata sostenuta in 11 esercizi finanziari interamente dai governi, allora ancora divisi, della Tripolitania (quasi 51 milioni di lire) e della Cirenaica (27 milioni). Per ogni km degli 800 da realizzare ex novo si preventivò una spesa di 125.000 lire, che poi a impresa compiuta risulterà contenuta in 121.000 lire.                                  

Con leggere modifiche apportate qua e là al percorso, la realizzazione dell’opera fu autorizzata col Regio Decreto n.545 del 14 marzo 1935, a firma del Re e di Mussolini, e prevedeva un tempo massimo di 12 mesi (poi saliti a 17 a causa della concomitante guerra d’Etiopia che distolse parte di materiali e operai). Per accelerare i tempi, tutti i 1.824 km, tra quelli da sistemare e gli altri da realizzare ex novo, furono stabiliti in 7 metri di larghezza (5 centrali più 1 di banchina ad ogni lato), suddivisi in 16 tronchi e affidati a seconda della natura del terreno ad altrettante ditte specializzate, che così avrebbero lavorato in simultanea. Dopo l’istituzione dei vari ispettorati e sotto-ispettorati di tecnici del genio civile, delle ditte e di altri enti pubblici e privati collegati all’impresa, il 15 ottobre 1935 questa ebbe inizio (era nel frattempo iniziata da sole 2 settimane la guerra d’Etiopia). Il primo tronco interessato fu quello che partiva dal confine tunisino di Ras Agedir. I macchinari, arrivati quasi tutti dall’Italia via mare, erano imponenti perché commisurati all’opera: 65 rulli compressori, 37 bitumatrici, 50 frantoi, 35 fra motopompe e compressori, 190 fra autocarri e carri-botte, 9 autotreni, 2 escavatori, 4 trattori, 1.285 vagoncini decauville con 25 locomotive, 15 soffiatrici.

La progressione del lavoro fu pressoché costante ovunque: circa 200 metri al giorno. Canali di scolo, tombini, siepi di piante desertiche ai margini della strada, 5 ponti in calcestruzzo cementizio e altrettanti in cemento armato e 65 case cantoniere necessarie come punti di ristoro e assistenza lungo il tracciato, furono lavori accessori eseguiti da squadre di 30/40 indigeni coordinati da un capo-cantiere italiano. Nella Sirte, proprio nel punto di confine fra Tripolitania e Cirenaica fu costruito il grande arco marmoreo dei Fileni, ad opera di Florestano Di Fausto e per il quale rimandiamo ad altra sede la leggenda della gara fra greci e cartaginesi e dei fratelli Fileni, lì sepolti. Per la costruzione dell’arco commemorativo, alto 31 metri e abbellito da statue, rilievi e riferimenti scolpiti all’antica Roma e al Duce, furono impiegati 35 tonnellate (1.560 lastre) di travertino delle cave di Tivoli. Fu necessario impiantare in pieno deserto un cantiere, e un pontile nella vicina baia di Ras Lanuf. “L’architettura è nata nel Mediterraneo – affermerà Di Faustoed ha trionfato a Roma nei monumenti eterni creati dal genio della nostra stirpe: deve quindi restare mediterranea e italiana!”.

I lavori proseguirono per tutto il 1936 (anno della vittoria italiana in Etiopia, della fondazione dell’Impero e dell’Asse Roma-Berlino) e terminarono il 10 marzo 1937, 512 giorni dopo l’inizio. Le spese non superarono il budget, anzi furono inferiori (seppur di pochissimo) e, come avvenne per la fondazione dei borghi e delle città nuove in Agro Pontino, la differenza già intascata dalla ditte o dalle autorità interessate venne regolarmente restituita all’erario. In tempi come quelli attuali dove la durata dei lavori pubblici è dilatata a dismisura e i budget iniziali non sono quasi mai rispettati, ma anzi spesso gonfiati oltremodo senza ombra di restituzione alcuna, l’onestà di allora fa quasi rima con ingenuità, e strappa una smorfia di tenera compassione…

Giunto al confine libico-egiziano di Amseat la mattina del 12 marzo 1937, Mussolini inaugurò proprio lì, alle 10.00 circa, la grande strada litoranea, percorrendola poi per i primi 130 km fino a Tobruk. Dopo visite a Derna, Cirene, Bengasi e ad alcuni villaggi sorti in quegli anni in Cirenaica, la sera del 15 marzo giunse all’Arco dei Fileni, che inaugurò alle 20.00. Nella suggestiva cornice notturna del deserto rischiarato da tante fiammelle, di un battaglione libico e degli operai italiani e indigeni che avevano materialmente costruito l’Arco, il capo del fascismo disse semplicemente: “Siate orgogliosi di aver lasciato questo saggio della potenza fascista nel deserto!”. Quindi, dopo una frugale cena sotto le stelle con Balbo, l’architetto Di Fausto e altre personalità libiche e indigente, Mussolini trascorse quella notte in tenda, vicino l’arco. L’indomani alle 6.00, dopo aver assistito all’alzabandiera di un reparto indigeno (era il primo tricolore che s’issava sull’Arco), raggiunse una vicina radura approntata a rudimentale pista d’atterraggio e pilotò personalmente il veivolo lì presente per raggiungere Sirte e da lì continuare il suo viaggio in Libia che terminerà sotto i palmeti dell’oasi di Bùgara, con la spada dell’Islam offertagli quale “protettore del mondo arabo”, e a Tripoli nel celebre discorso in piazza Castello (oggi piazza Verde) dove nell’occasione venne scoperta una statua raffigurante lui a cavallo con la spada dell’Islam sguainata.

Oggi ovviamente quella statua, ai piedi del Castello, non c’è più (la buttarono giù già inglesi non appena arrivarono a Tripoli nel gennaio del 1943), ma la grande arteria stradale voluta da Balbo (che morirà accidentalmente nei cieli Tobruk nel giugno 1940, a pochi giorni dall’entrata in guerra) è ancora lì. Con le modifiche in vari tratti, gli orpelli fascisti rimossi (Arco dei Fileni incluso), un allargamento delle corsia ove possibile il manto fatto e rifatto e tutte le manutenzioni di cui ha necessitato in tanti decenni, ma è sempre lì. A servire e decongestionare il maggior flusso di traffico del paese, ma senza nulla che segnali più ai milioni di automobilisti all'anno che l’attraversano in lungo e in largo che fu fatta per volontà italiana e con sudore libico e italiano insieme. Un successo ai limiti della realtà (di quelli a cui Balbo aveva già abituato il mondo con le sue precedenti imprese aviatorie), ma  sfortunatamente in un periodo oggi talmente vituperato - senza neppure conoscerlo - da impedire di restarne invece, come questi casi, invece suggerirebbero  orgogliosi e compiaciuti.                   

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