IL PICCOLO CAMICE
23 aprile 2017
IL PICCOLO CAMICE
Un racconto di Mauro Santomauro
Già a dodici anni ero arso dal sacro fuoco della scienza: sognavo di diventare, da grande, un novello Lavoisier, di scoprire nuovi elementi e sintetizzare straordinarie molecole.
Il sapere che il famoso chimico francese avesse perso la testa sulla ghigliottina di Robespierre era un particolare per me assolutamente insignificante.
L’esercizio di tali ingenui sogni infantili si concretizzava, di solito, nel mio laboratorio di ricerca, ovvero nel fondo del garage di un amico che condivideva con me la stessa febbrile passione ed il cui padre non era, fortunatamente, al corrente degli strani e pericolosi maneggi che avvenivano a pochi centimetri dalla carrozzeria fiammante della sua nuova ed adorata fuoriserie.
Dopo aver esaurito tutto il materiale di cui era provvista la confezione de “Il Piccolo Chimico” fattomi regalare un Natale, il mio spacciatore di fiducia divenne la vicina farmacia, o meglio, il figlio del titolare: un compagno di scuola che l’adescante promessa di qualche figurina introvabile della Panini, aveva convinto a trafugare di nascosto qualche reagente dal negozio del padre.
Innumerevoli porzioni di lividi pomeriggi invernali e pigri dopopranzo estivi vennero rubati al riposino e ai giochi fanciulleschi, tanto era esaltante il pensiero dell’ambiziosa ricompensa finale che mi attendeva: essere il primo ed unico dodicenne della storia a salire sul podio dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze…
C’è, tuttavia, da aggiungere che gli intrugli e gli esperimenti preparatori che mi avrebbero condotto trionfalmente a Stoccolma necessitavano di un prezzo da pagare. Più un effetto collaterale che, ai miei occhi, appariva assolutamente trascurabile: quasi sempre tornavo a casa con vistose bruciature sul maglione buono di lana o inoccultabili scolorimenti del velluto dei pantaloni appena comperati.
Ma la scienza, si sa, è fatta anche di nobili quanto ineludibili sacrifici.
Anche se mia madre continuava ostinatamente a non comprenderne l’eroica grandezza.
Fu pertanto facile convincerla a comperarmi un camice.
Ci pensate? Un vero camice come i veri scienziati!
Scelta obbligata fu “Il negozio del Lavoratore” che, assieme a volgari tute da lavoro e orride divise da cameriera, era l’unico esercizio commerciale della città che vendesse camici.
Che in realtà fossero indumenti più conformati al mestiere di macellaio o di barbiere m’importava ben poco: sarei stato finalmente “un vero chimico”.
Il camice era di almeno due taglie più grande della mia, come ebbe a notare saggiamente mia madre, ma il commesso mentì spudoratamente dicendo che “lavandolo, il tessuto si restringe, signora!”. Ed io ero troppo elettrizzato per lasciarmi scoraggiare da futili disquisizioni di natura sartoriale.
Quel virginale indumento era per me l’investitura ufficiale, il biglietto d’ingresso nel fantasmagorico ed esclusivo “Club della Scienza”. Finalmente mi sentivo alla pari dei miei “colleghi” scienziati.
Neanche a dirlo, se prima facevo poca attenzione nel rovesciarmi addosso qualche soluzione acida, macchiarmi con un reagente aggressivo o pulire con la manica - a mo’ di strofinaccio - il piano sporco del tavolo di lavoro, ora non avevo più remore: il camice era il mio scudo protettivo, la barriera contro ogni aggressione, la mia carta assorbente di ogni macchia perniciosa.
E più ne aggiungevo - di macchie intendo - e più ne andavo fiero, come un soldato che riceva una nuova medaglia per ogni nuova azione eroica.
Nonostante le prevedibili proteste - le mamme, come è risaputo, s’intendono poco di scienza- avevo categoricamente proibito alla mia di lavare la sacra reliquia.
Il camice insomma.
Un giorno, tornato da scuola, trovai mia madre ad attendermi all’ingresso di casa con un’espressione contrita dipinta sul viso.
”Strano,”pensai ”deve essere successo qualcosa di grave…”
Dovete ora sapere che gli antichi alchimisti avevano un detto per spiegare come certe reazioni avvengano. Naturalmente, è in latino: “Corpora non agunt nisi soluta”.
Per chi non avesse voglia di collegarsi a qualche motore di ricerca e a quelli che non hanno più molta dimestichezza con la lingua di Cicerone, traduco alla buona: “Le sostanze (i corpi) non reagiscono tra loro se non quando esse sono disciolte”.
Se la mamma avesse tenuto conto di questa antica e sperimentata saggezza alchemica, forse non sarebbe successa l’orribile cosa che sto per raccontarvi.
Disattendendo tutte le mie accorate raccomandazioni e i ferrei divieti, la colpevole genitrice aveva dato sfogo a quell’insano ed incontrollabile impulso che afferra e pervade, senza distinzione di razza e di tempo, tutte le mamme della Terra: lavare quello che è sporco.
E pure la mia non sfuggì a tale improvvida pulsione: approfittando della mia assenza, aveva immerso il mio camice costellato di macchie altamente reattive in un mastello da bucato pieno d’acqua calda e sapone!
Citando testualmente le parole terrorizzate di mia madre, questa fu la reazione che ne seguì: ”L’acqua si è messa tutta ad agitarsi, a ribollire e anche a fumare. E quando, dopo una buona mezz’ora, tutto s’è acquietato, ne è uscito questo…”
Mentre ancora non mi capacitavo che la donna che mi aveva generato avesse potuto compiere un così efferato delitto, confusa e mortificata, mamma mi porse un bottone ingiallito attaccato ad un brandello di tessuto sfibrato ed annerito.
Era tutto ciò che restava del MIO CAMICE!
Da quel tempo di anni ne sono passati parecchi. Sono poi davvero diventato uno scienziato, ma il re di Svezia si è ormai stancato di aspettarmi.
E anche di camici ne ho avuti in gran quantità.
Ma quello che non riesco a dimenticare, lo conservo ancora - almeno quel che ne resta - in una busta ingiallita in fondo ad un cassetto.
Un bottone, un brandello di stoffa, un ricordo annerito.
Maledizione! Se solo le mamme sapessero un po’ più di chimica…
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News » Il racconto della Domenica | domenica 23 aprile 2017
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