“Il bisturi di Elisa” di Donatella Maino
10 febbraio 2019
di Donatella Maino
Era autunno, il gran pennello stava cambiando i colori vivi dell’estate con le calde sfumature della stagione più variopinta dell’anno. Elisa stava seduta alla finestra e osservava i monti, suoi antichi nemici. Avevano sempre rappresentato i suoi limiti, non poteva spaziare guardando orizzonti senza confini, tutto era circoscritto, trattenuto da un muro di cinta. Pensava alla stranezza delle sensazioni. L’assalivano all’improvviso. Ora era eccitata dai colori. Le macchie ruggine con i verdi degradanti in mille chiazze gialle e marrone le sembrava fossero grossi camaleonti, anzi, era sicura, i monti erano grossi camaleonti, domani li avrebbe visti muoversi. Per lei la staticità era angoscia, il movimento era vita. Più ci pensava e più amava i camaleonti, se ne sarrebbero andati definitivamente e quel confine invisibile che unisce la terra al cielo sarebbe stato finalmente piatto, come piaceva a lei. Il tramonto del sole sarebbe stato l’amplesso totale con la terra, tutto si sarebbe trasformato, deformato la linea sottile per dileguarsi piano, lasciando il ricordo confuso dell’emozione. Ancora l’emozione! Era piena d’emotività che ricavava anche dalle cose più semplici. Elsa amava molto gli animali, le sarebbe piaciuto averne tantissimi ma per problemi tecnici si accontentava di Pina, un merlo indiano, l’aveva acquistato tanti anni prima assieme a Paolo. Paolo era il suo secondo compagno di vita. L'aveva conosciuto dopo la separazione da suo marito, quando credeva fosse ancora possibile costruire un rapporto decente. Era una donna dai mille volti, avrebbe potuto proporsi in qualsiasi modo. Non era stata sempre così, la vita l’aveva deformata dall’impronta iniziale. Era vile e coraggiosa era tutto e il contrario di tutto. Lei amava definirsi una possibilista, in effetti, era solo un alibi per mascherare le mille personalità che d’occasione in occasione sfoggiava con una naturalezza veramente da attrice consumata. Elisa non era più giovane, il tempo aveva lavorato, spietato come sempre, non lasciava dubbi circa la sua età. Nonostante ciò lei non sapeva dove finisce la giovinezza e comincia la vecchiaia, non aveva percezioni di cambiamenti radicali, il suo modo d’essere era sempre uguale, solo quando lo specchio rifletteva la sua immagine vedeva qualche segno, qualche indizio ma la luce dei suoi occhi era immutata e filtrava il tempo senza rammaricarsi. L’autunno era anche la stagione delle riflessioni, sentiva l’incalzare dell’inverno, conosceva i freddi venti del nord che ogni anno la raggelavano, sempre costretta a ripararsi da tutto e da tutti. Come un orso smarrito nella foresta, cercava la tana che non trovava e l’assaliva quel malessere comune a chi non ritrova le proprie abitudini. Quella sera decise di scrivere, lo faceva da sempre, voleva imprimere su un foglio le gioie, le angosce, le paure, le banalità, i fatti importanti che l’avevano accompagnata durante il suo cammino. Percorse mentalmente i primi anni della sua vita, pensò che era bene non coinvolgere persone che erano morte da tanti anni anche se un velo di rammarico le inumidì gli occhi, era l’antico dolore che riaffiorava ogni volta che pensava alla sua infanzia. Elisa era rimasta orfana adolescente, aveva perso i genitori a diciott’anni e il fatto aveva lasciato un segno indelebile, tutt'ora visibile all’occhio attento di chi vuol capire. Nel maggio del ‘settantatre aveva sposato Danilo, un ragazzo buono ma forse non adatto alla convivenza con una ragazza (19 anni) già temprata dalle avversità. Parlarono d’amore eterno, lei per endemica euforia delle novità, lui per chissà quale motivazione. Ancora adesso quando Elisa si ferma a pensare non trova una risposta logica al comportamento del marito, non capisce o non vuole capire. E’ facile stare in superficie piuttosto che scavare. Lei, che si era sempre dichiarata una persona introspettiva, si lasciava cullare dall’oblio della non consapevolezza, era stanca, aveva perso l’interesse ad andare oltre la facciata, le barricate la deprimevano, aggirava l’ostacolo. Con questo stato d’animo riprese la penna in mano, la osservò a lungo, sembrava un bisturi, avrebbe fatto male, sarebbero riaffiorate piaghe mai risolte. Guardò il foglio ancora bianco, solo qua e là bagnato dalla rugiada dell’emozione. Non le sembrò più adatto allo scopo, voltò la pagina e fu abbagliata dal candore del nulla. Continuò a scrivere per ore e più scriveva più la tristezza la afferrava per mano come nei lunghi incontri notturni, quando si amavano fino all’impossibile, fino a distruggersi, fino a quando la serpe del tormento, del vivo ricordo non fosse stata vomitata. Elisa chiuse il quaderno delle rimembranze, era stanca, senza energia, l’aveva esaurita nell’inutile, ripetuto sforzo d’accettarsi guardandosi allo specchio della memoria. Come ogni persona anche lei aveva bisogno di confrontarsi, l’eccesso era sempre stata la sua misura di capacità, solo attraversando orge mentali o baldorie vissute brindando fino a cadere carponi col viso rivolto in basso, solo questo le permetteva di rialzare la testa e convincersi della necessità di un nuovo punto per ricominciare. L'effimero era il naturale compagno di questa donna che non riusciva mai, mai, veramente a morire per rinascere.
News » Il racconto della Domenica | domenica 10 febbraio 2019
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