Trono d’estate
08 luglio 2025
Storia pieghevole di una seduta leggera
C’era un tempo, non troppo remoto, in cui il riposo era privilegio d’élite e l’ozio — quello vero, aristocratico, colto — sedeva su poltrone damascate nei salotti dell’aristocrazia. Poi, un giorno, una sedia si piegò. E da quel gesto semplice, quasi umile, nacque un’idea nuova di libertà: la sdraio.
Era l’Ottocento, secolo d’invenzioni e di vapori, di crociere transoceaniche e di sogni borghesi. Sui ponti delle navi inglesi, al ritmo lento del rollio marino, apparve per la prima volta la deck chair. Solida e flessibile, in legno marino e tela resistente, era una sedia fatta per accogliere il corpo che si lascia andare al respiro dell’oceano. Non serviva a lavorare. Serviva a contemplare. A esistere.
Così nacque la sdraio: non una sedia qualsiasi, ma un trono pieghevole per regni temporanei fatti di sole e di vento.
Con l’alba del turismo balneare, sul finire del secolo, la sdraio sbarcò sulla terraferma, elegante e discreta. Fu subito conquista. Nelle spiagge di Deauville e della Liguria, tra i profumi salmastri e le crinoline ritirate, apparvero file ordinate di sdraio: geometrie dell’estate, piccoli altari al culto del tempo libero.
Il tessuto? A righe, naturalmente. Blu, bianche, rosse: come bandiere del dolce far niente. Bastava aprirla, inclinarla, sedersi. E il corpo si ritrovava padrone del proprio tempo.
Negli anni Trenta, e poi nel dopoguerra, la sdraio diventò famigliare. La si trovava ovunque: nelle colonie marine, nei campeggi dell’entroterra, nei giardini delle pensioni a gestione materna. Era la compagna fedele delle estati italiane: testimone silenziosa di radioline gracchianti, di romanzi iniziati e mai finiti, di sonnellini all’ombra, tra il canto delle cicale e il sale sulle labbra.
Ogni sdraio aveva una storia, e tutte raccontavano lo stesso racconto: il piacere di fermarsi.
Nel secondo Novecento, la sdraio cambiò pelle, ma non anima. Arrivarono l’alluminio, il nylon, i meccanismi reclinabili, i poggiapiedi estraibili. Ma restava lei: la sedia che non chiede nulla, se non un corpo disposto a distendersi.
Alcuni modelli divennero icone del design: firmati, fotografati, reinterpretati. Entrarono nei musei e nei festival, abitarono terrazze urbane e giardini sospesi. Sempre loro, eppure sempre nuove.
Perché la sdraio è un paradosso sottile: è mobile, eppure stabile; effimera, ma memorabile; oggetto comune, ma profondamente poetico.
Oggi, quando ne apriamo una — magari impolverata, scricchiolante, superstite di mille stagioni — compiamo un gesto antico. Lo stesso gesto di chi, più di un secolo fa, solcava l’oceano con un cappello a tesa larga e un libro in mano.
Aprire una sdraio è aprire un varco nel tempo. Sedervisi è un atto di fiducia nel riposo. Ogni sdraio è una promessa pieghevole di pace. È il luogo in cui il corpo si concede tregua, e il pensiero smette di rincorrersi.
La sdraio, in fondo, è un inno al respiro. Una pausa scritta in legno e stoffa. Un piccolo trono democratico da cui guardare il mondo, o non guardarlo affatto.
di Giorgia Pellegrini
Foto libere da copyright
Video https://youtu.be/K-T5EvW_AyA
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