Bikini o burkini?
20 agosto 2016
di Mariangela Mombelli
La scelta di alcuni sindaci francesi e le parole del primo ministro Valls sul divieto per le donne musulmane di indossare il burkini in spiaggia sta facendo discutere. Opinioni differenti, contrapposte, tra chi sostiene che, in nome della libertà delle donne dall'oppressione religiosa, il burkini vada vietato e chi, sempre in nome della libertà femminile, vede il divieto come una pericolosa intrusione perché nessuno è titolato a dire a una donna come deve vestirsi o svestirsi. Ma la libertà delle donne è una costruzione: se l'alternativa è che le donne musulmane siano recluse in casa, meglio che vadano in spiaggia e facciano il bagno col burkini, come è meglio che vadano a scuola velate, piuttosto che restare in casa perché la legge francese proibisce il velo imposto loro dalla famiglia e dalla religione. E se la libertà di cui continuiamo a parlare fosse quella degli uomini di avere a disposizione sulle spiagge corpi seminudi da guardare? Siamo sicure/i che le donne occidentali siano realmente libere da quelli sguardi, che le lasciano sì libere di nuotare nude, ma le maltrattano, le violentano, le uccidono non appena fanno scelte di autodeterminazione e di libertà all'interno delle relazioni? I codici che regolano i corpi non sono mai liberatori, anche quando promossi in nome della laicità, così come non lo è ogni forma di proibizionismo. Una laicità che non si fonda sul rispetto e sull'accettazione delle differenze sfiora a sua volta il fondamentalismo, a maggior ragione in un paese come la Francia che fa della libertà, della fraternità e dell'uguaglianza la sua bandiera. Saremmo tutte felici di vedere donne musulmane fare il bagno in bikini e non in burkini o camminare per strada con i capelli mossi dal vento, ma non possiamo deciderlo noi occidentali. Possiamo però, nell'incontro con loro, scambiare le nostre storie di liberazione sessuale e cercare di capire quanto il loro modo di vestire sia un'imposizione o risponda invece a una loro affermazione identitaria che, pur esprimendo sofferenza rispetto alla società in cui vivono, passa anche attraverso l'abbigliamento.
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