L’uomo performativo, vulnerabilità al gusto matcha
27 agosto 2025
Quando avevo sedici anni, pensavo che i ragazzi interessanti fossero quelli che ti offrivano un cocktail con troppa sicurezza e un po’ di barba incolta. Poi ho compiuto vent’anni e ho capito che il vero protagonista del nostro tempo non è né il maschio alfa da discoteca né il timido romantico da film indie: è l’uomo performativo.
L’ho incontrato per la prima volta al bar sotto casa. Non beveva caffè: sorseggiava matcha latte, fotografandolo da tre angolazioni diverse. Aveva lo smalto nero, un anello vistoso e una copia di "L’arte di essere fragili" infilata nella tasca dei jeans cargo. Lì per lì ho pensato: “Wow, finalmente un ragazzo che legge Alessandro D’Avenia!”. Poi, dopo un’ora, ho capito che il libro era un accessorio, come la sua tote bag del MoMA (dove non era mai stato).
Il maschio performativo è questo: una creatura che usa la vulnerabilità come filtro Instagram. Non ti dice solo che fa terapia, lo pubblica nelle stories con una playlist di Mitski in sottofondo. Ti racconta di aver letto bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins), ma ti confessa che il libro è ancora sul comodino, fermo a pagina venti. Ti propone una mostra di arte concettuale, ma non sai se lo fa per stupire te o per colpire i suoi follower.
Eppure, non riesco a odiarlo. Perché, tra i ragazzi che citano Andrew Tate e parlano di “bodycount” come se fossero le statistiche di FIFA, almeno lui prova a cambiare linguaggio. Esagera, posa, a volte recita. Ma tenta. Tenta di mostrarsi fragile, di mescolare un’estetica “femminile” alla sua identità, di non avere paura di mettersi lo smalto.
Certo, c’è qualcosa di paradossale: la sua autenticità è costruita, la sua vulnerabilità è un hashtag. Ma non siamo forse tutti così? Io stessa mi scatto una foto davanti al tramonto pensando “che canzone metto?". Forse la Generazione Z, ossessionata dall’autenticità, non accetta che la sincerità oggi sia sempre un po’ performativa.
E allora mi chiedo: è davvero un problema se un ragazzo mette in scena la sua decostruzione, invece di tenerla nascosta? Forse l’uomo performativo non è il compagno perfetto, ma è una tappa. È il ponte traballante tra i maschi che si vergognano delle emozioni e un futuro dove sentirsi fragili non sarà più una performance, ma una realtà.
Alla fine, io preferisco un pavone che sventola un libro femminista, anche se lo tiene chiuso, a un gallo che conta le sue conquiste come medaglie. E magari, un giorno, quel libro lo aprirà davvero. Nel frattempo, lo guardo sorseggiare il suo matcha e penso: forse non è l’uomo dei miei sogni. Ma di certo è l’uomo della mia generazione.
di Giorgia Pellegrini
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