Alla tavola della vita con Edoardo Raspelli
28 settembre 2025
C’è chi lo chiama “il critico più temuto d’Italia”, chi “il cronista della gastronomia”. Di certo Edoardo Raspelli non lascia indifferenti: voce inconfondibile, penna affilata, palato severo. In copertina sul magazine InForma dell’ONAF – Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Formaggi – il decano del giornalismo enogastronomico racconta il suo rapporto con i formaggi, la memoria del cibo e la deriva spettacolare della cucina contemporanea.
Bettelmatt, il rifugio tra le vette
Se dovesse scegliere un formaggio come simbolo della sua vita, Raspelli non ha dubbi: «Il Bettelmatt». Lo dice con l’orgoglio di chi ha scelto di vivere a Crodo, in Val d’Ossola, tra malghe e pascoli alti, dove le vacche salgono d’estate e il latte diventa oro giallo. «Una volta lo chiamavano fontina, poi giustamente è arrivata la DOP. Oggi rimane un prodotto eroico, fatto da pochi produttori, che racconta il legame indissolubile fra montagna, tradizione e sopravvivenza».
E poi ci sono gli altri amori: Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Provolone Valpadana, Caciocavallo podolico, Gorgonzola.
Il sapore della memoria
Il formaggio, come ogni cibo autentico, è anche ricordo. Raspelli torna bambino, negli anni ’50, tra le colline del Garda. «Mio padre non sopportava sapori forti, così io, mia madre e mio fratellino ci rifugiavamo nella villa di mia zia a Gargnano. Lì ho conosciuto i pesciolini del lago, l’olio e una mozzarella che ancora non si chiamava di bufala campana». Il racconto si intreccia con l’educazione di uno zio maître d’hôtel, che aveva servito persino Rudolf Nureyev: «Fu lui a insegnarmi le regole della tavola. Non mi versava il vino, ma mi insegnava a mettere i gomiti giù».
Tre T da non dimenticare
Se c’è un motto che riassume il suo pensiero gastronomico è quello che lui stesso depositò anni fa: Terra, Territorio, Tradizione.
«Se sono in Sicilia, voglio i cannoli di ricotta; se sono a Venezia, i risi e bisi; se sono nelle Marche, i vincisgrassi. E nei formaggi vale lo stesso. Non relegateli a un angolino nei menù: il carrello dei formaggi, soprattutto quelli del territorio, è una festa di cultura».
L’uomo delle stroncature (e delle corone di fiori)
Raspelli è stato il primo a portare in Italia la critica gastronomica imparziale. Lo fece negli anni ’70, quando al Corriere di Informazione gli affidarono la “pagina dei ristoranti”: «Voglio anche quelli cattivi», gli disse il direttore Cesare Lanza. E lui obbedì, con cronache feroci e memorabili.
Il prezzo? Querele (venti, tutte vinte), minacce, persino una corona da morto recapitata sotto casa: «Risposi in prima pagina: la loro cucina era fetente, ma non mortale».
Tra Vissani e Cracco, Cedroni e… Pollock
Nei decenni Raspelli ha visto nascere i grandi nomi della cucina italiana. Ricorda quando, consigliato dal ristoratore Guido Alciati, scoprì un giovanissimo Gianfranco Vissani: «Era già bravissimo, oggi rimane un gigante». E non manca un colpo a Carlo Cracco: «Molti anni fa lo bastonai per un piatto con l’acqua. Lo tolse dal menù, su consiglio del padre. Ma oggi va detto che Cracco ha fatto passi enormi».
Il suo entusiasmo recente? Moreno Cedroni a Senigallia: «La più grande esperienza della mia vita in Italia. Straordinario e senza atteggiarsi».
Un consiglio ai giovani chef
Non risparmia critiche: «Troppi piatti sembrano quadri di Pollock: belli da vedere, ma confusi, con accostamenti insensati. Ho persino trovato pesce crudo dentro un dolce al cioccolato. Terrificante».La sua lezione è semplice e radicale: «Contano gli ingredienti. Quando mangiamo un grande formaggio contadino, un pollo allevato all’aperto o un pesce pescato, garantiamo il territorio e l’ambiente. La qualità non è un vezzo estetico, è una scelta etica e culturale».
Piaceri e limiti
Per Raspelli la tavola non è solo nutrimento: è l’ultimo, grande piacere della vita, quello che resiste anche quando gli altri vengono meno. Non parla però di eccessi o spettacoli, ma di una gioia sobria, radicata nei sapori autentici.
«La tavola – dice – è condivisione, memoria, legame. È il luogo in cui un piatto diventa racconto, dove un formaggio o un gelato riportano a un’infanzia lontana, a un volto amato, a un paesaggio che pensavamo perduto».
Oggi, dopo aver affrontato anche sfide personali con il peso e la salute, per lui ogni boccone ha un valore ancora più grande: «Mangiare lentamente, assaporare, masticare è diventato quasi un rito. Non posso più divorare, ma questo mi ha insegnato che il piacere non è nella quantità, ma nell’intensità di ogni assaggio. Un cucchiaio di crema catalana, un gelato ben fatto, valgono più di cento piatti scenografici».
Giornalismo gastronomico, un mestiere al tramonto?
Alla fine della conversazione, la riflessione più amara: «Se dovessi dare un consiglio al giovane Edoardo direi: cambia mestiere. Il giornalismo non esiste più. Oggi tra marchette e macchiette, testate che pagano pochissimo e il web che brucia tutto in un attimo, non vedo eredi».
Eppure, nella sua schiettezza, c’è ancora la passione di chi non ha mai ceduto a compromessi. Un uomo che difende la gola con moderazione, che racconta il cibo con la durezza della cronaca e la delicatezza della memoria.
di Giorgia Pellegrini
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News » INTERVISTE | domenica 28 settembre 2025
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