DALL’INCHIOSTRO AL SANGUE, INTERVISTA A NONNA GIUSEPPINA

02 dicembre 2016

testo e foto di Raffaella Bonora Iannece

Correva l’anno 1939 ed era una calda mattina di settembre, c’era chi stava stendendo i panni in quel momento, i bambini facevano il bagno giù al fiume, gli uomini lavoravano, i contadini aravano i campi, ci si preparava alla vendemmia, nelle case le donne impastavano il pane, davano da mangiare alle galline..quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. I libri riportano tutti i dettagli del più grande conflitto armato dell’umanità, date, numeri, nomi, informazioni che, per quanto importanti, non ci permettono di toccare con mano la disperazione, la paura, l’angoscia vissuta da chi, in quegli anni, ha visto scrivere la storia. La guerra terminò nel 1945 e, da quella miracolosa data, sono trascorsi più di settant’anni. Una donna, oggi nonna, all’epoca bambina, apre per noi lo scrigno dei suoi ricordi. Lei è Giuseppina e, nel 1939,aveva circa tre anni, la sua infanzia è intrisa del sapore amaro del fascismo, della guerra, della fame e della povertà di un popolo distrutto. "Durante quegli anni il cibo scarseggiava -ci racconta Giuseppina- il grano bisognava consegnarlo all’ammasso pubblico e ad ognuno veniva data una razione quotidiana di pane, circa 40- 50 gr a testa, non di più. Chi viveva in campagna aveva qualche speranza in più, la terra, ogni tanto, dava qualche frutto, anche se non c’era possibilità di coltivarla, ma in città, lì hanno conosciuto la vera carestia. Mi resi conto di quanto fosse nera la fame il giorno in cui una donna anziana, di passaggio, mi strappò di mano una fetta di pane e la divorò in un sol boccone, io avevo 6 anni e mia nonna, invece di sgridarmi per aver perso del cibo (negli anni ’40 il pane valeva quanto l’oro) mi fece capire la disperazione di quella donna" "Gli stenti cambiano le persone", "mi disse". Scende una lacrima su un viso che ne ha viste tante, gli occhi azzurri tornano ad illuminarsi dell’innocenza di una bambina che non riesce a capire il perché di tanta sofferenza. "Mio padre era al fronte, nel 1937 era partito volontario con le camicie nere, io e mia madre Maria vivevamo con i miei nonni Felicetta e Luigi. Ogni giorno facevamo la fila per il pane e mia nonna digiunava, conservava la sua fetta per darla a me – non esiste che in casa mia, una bambina ha fame e io non ho nulla da darle- ripeteva quando i figli volevano obbligarla a mangiare. La casa dei miei nonni era stata ricca, un tempo, coltivavano, avevano grandi allevamenti, ma la guerra  aveva portato via tutto. La condizione peggiorò quando i soldati occuparono le nostre terre, costringendoci ad abbandonare la grande tenuta per ripararci a Campagna, in una grotta. La situazione era diventata pericolosa perché spesso questi soldati litigavano, si picchiavano, si sparavano, si uccidevano fra di loro e restare così vicini agli accampamenti era diventato impossibile. "All’epoca avevo sette anni ed ero gravemente malata, non camminavo più e molti miei coetanei erano morti a causa della stessa malattia", si ferma un attimo, guarda in alto come a ringraziare, dopo più di settant’anni, il Signore per quel miracolo. "Nonostante il morbo, ripararci nella caverna era necessario e così partimmo, lasciandoci indietro tutta la nostra vita, senza sapere se avremmo mai più rivisto casa. Abbandonai il luogo in cui ero cresciuta, il calore del camino, le coperte ricamate a mano, i miei animali ai quali ero tanto legata, per andar a vivere nella grotta dei Briganti. Non eravamo gli unici sfollati, quasi tutti furono costretti ad emigrare per lo stesso motivo. Io ero condannata a morte, mi davano tutti per spacciata ma Dio aveva altri piani per me: un medico passò da quelle parti, con la sua famiglia, mia madre gli regalò un materasso di lana per non farlo sedere sulla dura roccia e lui, in cambio, mi visitò e mi salvò la vita con due minuscole compresse. Mio cugino purtroppo non ebbe la stessa fortuna e morì". Giuseppina era molto piccola ma, come tutte le persone anziane che portano sul corpo e sull’anima le cicatrici di pagine storiche drammatiche, ricorda lucidamente ogni piccolo dettaglio, a volte dimentica il quotidiano ma il passato è scolpito nella sua mente, triste ed indelebile. "Accadde una cosa terribile giù al paese, a quel tempo: al Municipio di Campagna distribuivano il pane a chi aveva la tessera e si faceva la fila per il sussidio. Un carro armato americano, vedendo tutte queste persone, si fermò per distribuire viveri, gallette, cioccolato, salsicce. Passò di lì un aereo, vide questo carro armato e iniziò a mitragliare, uccidendo tutti. I morti erano così tanti che non si poterono neppure seppellire, anche perché tutti i cittadini si erano rintanati sulle montagne, i giovani erano in guerra. I pochi superstiti fecero cataste di legno e bruciarono i cadaveri. I nomi sono oggi incisi su una stele al cimitero di Eboli". Rievoca così quella che, per le nuove generazioni è storia, riportata nei paragrafi dei libri studiati a scuola. Giuseppina ritrasforma l’inchiostro in sangue, le lettere in urla di disperazione. "Rimanemmo all’ombra delle montagne per circa sei mesi, ad un certo punto ci fu un’epidemia di tifo e, per evitare il contagio, decidemmo di tornare a casa. Per fortuna, nel frattempo, erano arrivate le truppe americane, e molti di noi si salvarono grazie alla loro Penicillina. Nella mia famiglia furono curate quattro persone che, senza le medicine degli americani, sarebbero sicuramente decedute. Tornammo, così, ad Eboli. Casa nostra era occupata completamente dalle truppe americane, la paglia era stata usata per costruire giacigli, il cibo consumato, alcuni mobili smantellati. Quando, però, i soldati capirono che noi eravamo i padroni della tenuta si scusarono e se ne andarono, erano ragazzi giovani, molto educati e disperati. Pensate, una volta un soldato che lavorava nelle cucine, che non parlava una parola di Italiano, bussò alla nostra porta con delle camicie sporche in mano e, mimando, fece capire che aveva bisogno di qualcuno che gli lavasse i vestiti. Ogni volta che mia nonna gli lavava qualcosa lui, in cambio, per ringraziarla, le riempiva il tavolo di cibo in scatola sottratto all’accampamento. "Molti di quegli alimenti non li avevo mai assaggiati e non li ho trovati in commercio mai più". Sorride ricordando il militare straniero che, senza parlare, dimostrava a modo suo riconoscenza ad una donna che poteva essergli madre, un ragazzo lontanissimo da casa, costretto a combattere una guerra che non lo riguardava, un ragazzo dall’animo gentile, di cui Giuseppina non ha saputo più nulla. "Ricordo la mattina che finì la guerra, fu dopo l’arrivo degli Americani, il giorno dell’armistizio, tutte le campane suonarono a festa per moltissimo tempo, la gente si faceva il segno della croce e piangeva di gioia, tutti si abbracciavano e pregavano". E mia nonna si emoziona nel 2016 come negli anni ’40,  quando le campane a festa erano una dichiarazione di libertà e speranza. " E tuo padre, invece, Attilio, quando tornò a casa?" Chiedo, curiosa del destino dei nostri eserciti. "Mio padre tornò qualche anno dopo, era stato catturato dalle armate straniere e fatto prigioniero in un campo di concentramento ad Addis Abeba, in Etiopia. Rimase in Africa nove anni, molti morirono anche durante il viaggio di ritorno, che durò quasi un mese, a bordo di una nave malandata. Rientrò a casa il 23 Dicembre del 1946, con un pezzo di carta sul quale aveva disegnato la cartina del campo e i nomi dei suoi compagni, molti deceduti a causa dei maltrattamenti subiti". Termina con il Natale del 1946 il racconto di mia nonna, il primo Natale che ricorda con sua madre e suo padre, il primo Natale della sua vita festeggiato in una nazione libera, unita e in pace. Oggi diamo per scontato cose importanti come la Pace, non rendendoci conto che, nella pace, non vi è nulla di scontato. In questo preciso istante, mentre voi state leggendo tranquillamente un articolo, seduti comodamente , nel Mondo, si combattono centinaia di guerre, muoiono milioni di persone, negli occhi di tante bambine come Giuseppina si stanno imprimendo immagini terribili. Festeggiare un Natale di pace, festeggiare la fine di tutte le battaglie, in ogni angolo del Mondo, sembra un’utopia lontana, eppure non sarebbe impossibile se l’umanità o, perlomeno, la fetta di umanità investita dalla responsabilità di guidarci, smettesse di usare la calcolatrice e la bilancia e iniziasse a scegliere il destino del suo popolo usando il cuore e l’anima.

 

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