JEAN ACQUAVIVA: l’incanto di “A occhi aperti”
26 maggio 2019
di Jean Acquaviva
Capitolo 4 (parte)
La biblioteca è situata in un edificio a nord della città, che raggiungiamo in taxi. È la sede di un’associazione che si ispira al socialismo rivoluzionario internazionalista di Rosa Luxemburg. Entriamo nella hall, ne percorriamo il corridoio al pian terreno e osserviamo i muri bianchi tappezzati di foto e ritratti di filosofi, politici, attivisti di sinistra, tutti rigorosamente in bianco e nero. Saliamo al primo piano, dove vediamo le sedie stipate per l’intervista a Pennac. Nei tavolini tutt’intorno ai muri vi sono pile del libro La passione secondo Thérèse, l’ultima opera sulla saga dei Malaussène. Ci avviciniamo al tavolo dei relatori, sopra il quale svetta la gigantografia di una giovane Rosa Luxemburg. Alle pareti della sala sono appese delle foto enormi di copertine di libri; quelle all’altezza delle prime due file di sedie sono Cevengur di Andrej Platonov e La madre di Maksim Gorkij.
Prendiamo posto nelle prime file, ma lateralmente, perché intendo camminare un po’ per la biblioteca durante la conferenza. Mentre la sala si riempie, parliamo di quale domanda potremmo fare a Pennac; Sonia preferisce sia io a parlare, poiché teme di emozionarsi, così mi riassume la trama de La passione secondo Thérèse e le caratteristiche dei personaggi. Vorrebbe che rivolgessi a Pennac una domanda sul matrimonio di Thérèse ma io sarei più interessato a chiedergli della famiglia Malaussène. Mentre discutiamo, arrivano i relatori.
Finalmente ho davanti a me lo scrittore europeo più osannato degli anni Novanta, che sfila accompagnato da un lungo applauso; insieme a lui – lo so dalla locandina pubblicitaria – , il direttore della biblioteca, un giornalista e uno scrittore danese. Pennac sorride e saluta, gli occhi vispi come un folletto dietro ai suoi occhialini; poi i quattro relatori si siedono. Sonia continua ad applaudire energicamente, sul viso un sorriso a tutta bocca. Mi tocca prenderle il gomito per farle segno di placarsi.
Come di rito, il direttore della biblioteca, mister Trier, procede con la presentazione degli ospiti e della serata; il suo stile sobrio e arcigno mi piace. Vedo della passione in lui. La parola passa al giornalista e allo scrittore danese. I due intellettuali, che a mio avviso si danno molte arie, esprimono la loro opinione sulla saga dei Malaussène, e in particolare sulla Passione di Thérèse. Mi annoio, e decido di alzarmi.
Mi aggiro nella biblioteca come in trance alla ricerca dello scaffale dei libri in lingua straniera. Lo trovo. Vedo libri in tedesco, in inglese, in francese. Come sottofondo odo la voce tenorile di Pennac, squillante e persuasiva. Sento che crede in quel che dice. L’interprete si sforza di tradurre riproducendo l’enfasi che Pennac mette in certi concetti.
Leggo i titoli dei libri sullo scaffale e noto che i primi li ho letti tutti. Le affinità elettive di Goethe, uno scrittore capace di tratteggiare le istanze assolute della passione e quelle ponderate della morale corrente con straordinario equilibrio; Incontri con uomini straordinari di Gurdjieff, un enigma quell'uomo: non dice tutta la verità, si inventa molti fatti eppure non è un ciarlatano; Il signore delle mosche di Golding, un racconto spietato sulla natura umana, dove il realismo trasfigura nel mito; La peste di Camus, un libro dove si affronta l'assurdità di esistere con un rigore etico che é già post- ideologico; Il fuoco di Barbusse, un epico affresco sulla Grande guerra, ricco di umanissime verità, narrato con lingua poetica e realistica a un tempo.
Mentre sto scorrendo gli altri titoli francesi, sento Pennac pronunciare in italiano: “Corsica”. Come d’incanto, esco dalla mia trance. Mi fermo ad ascoltare. “Mio nonno paterno era còrso, infatti il mio vero cognome, Pennacchioni, è còrso. Ha un suono musicale, come ogni parola italiana, ma declamare Daniel Pennacchioni con accento francese, sentite?, ha sempre destato reazioni comiche, e così l’ho abbreviato.” Io non ci trovo nulla da ridere. Mi chiedo come mai Sonia non mi abbia detto nulla delle origini corse di Pennac.
Torno verso il mio posto e guardo Sonia, sul cui volto è dipinta l’espressione: “Era ora che tornassi!” Mi fa cenno con il braccio di sedermi. Io obbedisco, sorridendo meccanicamente.
Ascolto, poco interessato, il resto del discorso di Pennac sulla Passione di Thérèse, intervallato dalle considerazioni critiche dello scrittore danese. Terminato questo argomento, il giornalista introduce le domande dal pubblico concedendo a sé stesso l’onore della prima, oltremodo arzigogolata, che riguarda la ricezione della serie dei Malaussène da parte della critica. Pennac replica con serietà e ironia. Poi, alcuni lettori chiedono precisazioni su dettagli insignificanti di questo o di quell’altro libro, che secondo loro sono alquanto rivelatori. Pennac ascolta e risponde con interesse misto – mi sembra – a compassione, nel senso nobile del termine. Temo che fra sei mesi, a libro pubblicato, toccherà a me compiere lo stesso sforzo.
Dopo quattro o cinque domande, arriva un intervento accademico sugli espedienti dello stile linguistico di Pennac, sul suo pastiche poetico; Pennac ringrazia. D’impulso intervengo io, alzandomi in piedi e parlando in francese:
“Buona sera, mi chiamo Daniel Sinclair e sono un critico d’arte.”
Pennac si protende verso di me: “La conosco, ho letto il suo libro su Picasso e l’ho vista in televisione; è un piacere averla qui.” L’interprete gli fa cenno di aspettare, intento a tradurre entrambi.
Io inizio ad argomentare: “Lei è uno scrittore, ed è còrso per eredità paterna. Anche io sono còrso, la famiglia di mio padre emigrò in Corsica all’inizio del Settecento, e mia madre è di un’antica famiglia corsa d’origine toscana, cognome Orsini…”
“Voilà! Un Orsini e un Pennacchioni davanti a voi, signore e signori.” Il pubblico ride sommessamente.
“Il còrso è una bellissima lingua romanza, non trova? La Francia per due secoli ha cercato di estirparla dall’isola. A me piace molto anche il suo cognome, e mi rammarico che l’abbia cambiato.”
“È bello, a suo modo. Forse un po’ enfatico, retorico, concorda? Ma suona meglio se pronunciato da un italiano. È questione di gusti, signor Sinclair. Lei come mai non ha tenuto il doppio cognome? Daniel Orsini Sinclair suona bene.”
Toccato nel vivo. Sono impreparato, non avevo mai considerato questa opportunità. Rispondo accomodante: “Perché no? Potrei aggiungere il mio cognome còrso. Farei dispiacere a qualche francese, ma ci guadagnerebbe la mia identità.” Sento Sonia che mi sussurra di fare una domanda sulla Passione di Thérèse.
Pennac non sembra infastidito dalla piega che ha preso il discorso, e prosegue: “Lei sembra avere il dente avvelenato contro la Francia, signor Sinclair, oppure Orsini… Ma temo che questi argomenti interessino poco i nostri amici danesi.”
Rifletto sulla domanda da rivolgergli.
“Ha ragione. Lei nella famiglia Malaussène, anzi nella tribù dei Malaussène, ha cercato di riunire una grande varietà di tipi umani. I fratellastri Malaussène, di padre ignoto, sono circondati da poliziotti spesso di ascendenze coloniali, e da amici protettori musulmani. È palese la sua volontà di rappresentare una famiglia e una società multietniche e ben integrate. Lei vede così la realtà, o sta descrivendo un sogno?”
“Belleville, il quartiere parigino dove vivo e dove ambiento i miei romanzi, è multietnico, ed è una bellezza vederlo tanto colorato. Ho il mondo sotto casa. Questo non significa che non esistano problemi. L’immigrazione, il confronto con l’alterità e la diversità portano arricchimento, scambio ma anche conflitto fuori e dentro di noi. In una società multiculturale la nostra identità viene continuamente obbligata a interrogarsi e a ridefinirsi.”
Riprendo la parola: “Il rischio, a mio parere, nel Duemila, sarà proprio l’esplodere di questo conflitto. In Europa ci stiamo aprendo all’immigrazione e all’integrazione in modo pericolosamente invasivo rispetto alla nostra identità e alle nostre tradizioni, che sono già oltremisura contaminate. Stiamo importando persone, gruppi etnici, culture che al contrario di noi hanno un’identità forte. In questo contesto, il conflitto interiore che si innesca negli europei rapportandosi con l’alterità rischia di generare conflitti anche esteriori, concreti, forse violenti. E la violenza genera il razzismo.”
Pennac mi scruta, fa una pausa e, lentamente: “Lei vorrebbe un’Europa con un’identità più forte, mi pare di capire.”
“Sì, non possiamo permetterci di perdere le nostre radici, perché gli immigrati che arrivano restano ben attaccati alle loro. E ci può essere vero scambio solo se la nostra identità viene affermata e riconosciuta. A tutt’oggi, noi europei non sappiamo più chi siamo.”
Finita la traduzione dell’interprete, mister Trier, da lungo tempo in silenzio, interviene: “Noi rispettiamo ogni opinione, signor Sinclair, ma di fronte a quel che lei dice sento il dovere di ricordare al pubblico che la nostra associazione è internazionalista.” Mentre l’interprete traduce la frase, rendendola comprensibile a me e a Pennac, il direttore alza il braccio e con gesto elegante indica la gigantografia di Rosa Luxemburg.
Pennac gli sorride, con quel suo sorriso largo, e gli occhi piccoli strizzati dietro le lenti; poi, rivolgendosi a me: “È così importante, signor Sinclair, sentire l’appartenenza a una nazione? Lei mi sembra in cerca di una patria.”
Silenzio. Rimango turbato dalla parola patria.
“La mia patria? Io sono còrso, e lei?” Le parole mi escono dalla bocca a scatti veloci. Le mie braccia si muovono a scosse.
Pennac si alza in piedi, fa il giro del tavolo e si ferma sulla destra, in linea con il posto da dove sto parlando io. Ci separano solo cinque o sei file di sedie. Scandisce: “Io sono francese, e sono europeo. Se torno indietro nel tempo sono anche còrso e tanto altro ancora. Per essere conciso, sono un uomo, che ne dice?” La voce di Pennac è calda.
“Sì, certo, idealmente siamo tutti cittadini del mondo.” La mia voce è stentata. “Si potrebbe dire che apparteniamo a una grande tribù, come i Malaussène. Tutti figli di… Padre ignoto.” Quindi, alzando le spalle, come stessi tremando: “Brrr… Mi fa venire i brividi, a pensarci.”
“Ha colto nel segno,” risponde suadente Pennac. “In un certo senso, avendo il padre ignoto, non hanno patria. Non hanno la casa del padre a cui tornare. Capisce?”
Adesso ho davvero i brividi, e lui lo vede, infatti fa un passo avanti e, indicandomi con il palmo della mano: “È questo che la turba? Che non hanno un padre?”
“Io… Io non sono turbato!” Sento la mia voce diventare acuta. Sonia mi tira la giacca per farmelo notare. “Io ho una casa paterna a cui tornare! Se lei preferisce non avere una patria, faccia come crede!” Pronuncio le ultime parole con intonazione alta e stridula. “Io ci tengo a essere Sinclair…” Quasi balbetto. “E Orsini!”
Respiro forte. Guardo in basso, come se volessi essere sicuro del posto in cui mi trovo. Mi sento instabile sulle gambe. Cerco con una mano la sedia dietro di me, trovo la spalliera, l’afferro e mentre sto per sedermi vedo con spavento che Pennac è avanzato a lato delle sedie, e ora sta a due metri da me, scrutandomi con occhi penetranti, forse minacciosi.
Resto in piedi, paralizzato. Ci guardiamo. Il mio è uno sguardo di terrore. I suoi occhi sono penetranti. Pennac, con ampio gesto delle braccia, cui rispondo oscillando all’indietro, e mani aperte davanti a me, declama: “Senta il suono della parola Orsini. Inizia cavernoso, con quella ‘o’, poi c’è come una sospensione, una pausa durante la ‘erre’, e infine il suono scivola via sottile, con quel ‘sini’, sinuoso e morbido…”
I suoi occhi sono penetranti. E buoni.
“Sia morbido, signor Orsini Sinclair. Sia morbido.”
La sua voce, come una carezza, mi spinge lentamente a sedermi. Il pubblico applaude.
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News » Il racconto della Domenica | domenica 26 maggio 2019
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