IL MESSAGGIO

26 novembre 2017

di Catia Capobianchi

Quel giorno vidi che le lancette dell’orologio, presero a girare in senso antiorario; sapevo che mi avrebbe chiamato, e che non avrei potuto fuggire, ma non volevo accettare un compromesso che tempo addietro timbrò la mia vita.

Era un tardo pomeriggio di gennaio e nonostante non avessi fame, preparai della pasta in bianco per colmare il vuoto che si arrampicava nel mio stomaco, nella speranza di attenuare quel pensiero che mi teneva sott’occhio come un avvoltoio.

Scolai la pasta rovistando tra i miei pensieri, e posai il piatto sul piccolo tavolino di fronte la tv, poi attizzai il fuoco nel camino e mi cominciai a navigare tra vari canali scartando film d’amore, alla fine optai in un documentario. Mi sistemai sprofondando sul mio divano e mi accinsi a mangiare. Non feci in tempo ad arrotolare gli spaghetti sulla forchetta quando il telefono squillò, guardai sul display del portatile e vidi che era lui.

Il primo impulso fu di rispondere ma, fui distratta dalla televisione che senza il mio comando girò canale approdando su una scena che mi colpì; c’era una donna di cui non si vedeva il volto giacché era di spalle, la testa inclinata da una parte copriva il viso di un uomo e dietro, uno sfondo di un mare galoppava triste sulla riva, mentre dei gabbiani sembrava formare un arco di parole. Fermai l’immagine mentre il telefono continuava a squillare, ma non diedi peso all’insistente suono che vociava stridulo nella stanza, fui troppo presa nel decifrare il significato del disegno nel cielo, che i gabbiani magicamente immobili, aveva tracciato. Focalizzai l’immagine sul quel punto, e mi avvicinai allo schermo cercando di analizzare quella sorta di testo scritto nell’aria. Mi spaventai, era come se qualcuno avesse versato gli uccelli in un gioco di parole, ma di cui non riuscivo ad afferrarne il significato. Le parole sembravano gettate in modo confuso senza alcun senso, ma qualcosa mi suggeriva che c’era un messaggio, allora decisi di invertirne l’ordine di queste e, dopo essermi armata di carta e penna, scrissi al contrario le lettere. Quando fini di appuntare lessi tutto di un fiato, e quello che venne fuori mi agitò ulteriormente, pensando indiscutibilmente che il messaggio fosse rivolto a me, quindi con gesto fobico buttai il foglio sul fuoco che ardeva impetuoso. Notevolmente agitata feci ripartire la scena ma, i titoli di coda indicavano il termine del film, premetti sul titolo ma vi lessi: “Nessun evento.”

Intestardita, cercai nel menù i film trasmessi finora sul canale prescelto e, costatai che era stato trasmesso un documentario, in sostanza quello che avevo scelto inizialmente: la questione non quadrava.

Rimasi immobile a pensare, con mano il telecomando remore del passato. Se prima non avevo appetito ora solo l’idea di mangiare mi dava la nausea, andai in cucina e presi un bicchiere di vino, lo bevvi tutto in un sorso e sentì suonare alla porta, mi pulì con un tovagliolo le labbra e mi diressi ad aprire trattenendo l’ansia che mi attanagliava la mente.

Aprì la porta ma costatai che non c’era nessuno, avanzai fuori di qualche passo ma non colsi anima viva. Pensai a uno scherzo o qualcuno che avesse sbagliato a suonare, stavo per richiudere la porta quando mi accorsi che vicino ai miei piedi c’era un foglio, lo raccolsi e per un attimo mi sentì mancare. Quel foglio che prima avevo stropicciato e gettato nel fuoco ora, era fra le mie mani, illeso.

Preoccupata chiusi in fretta la porta mentre tenevo da un lembo il foglio come se fosse contaminato e, determinata, lo rigettai sul fuoco attendendo che si riducesse in cenere. Poi versai tanta acqua sul fuoco fino a farlo spegnere e con una paletta raccolsi il tutto mettendo in una busta, e poi in un altra e infine gettai le buste ben annodate nella pattumiera in terrazzo. Feci un respiro di sollievo poi, mi accertai che tutti gli infissi fossero ben serrati e chiusi a doppia mandata anche la porta di casa. Tornai in salotto e vidi che la tv era spenta, un brivido mi sali fino allo stomaco e il cuore comincio a battere forte. Mi sedetti sul divano, pensando che nelle ultime settimane ero stata messa a dura prova dagli eventi che si erano accalcati uno sopra l’altro. Squillò il telefono e vidi che era ancora lui, quindi in un gesto folle presi il telefono scaraventandolo a terra, ma questo continuò a strillare come un bambino in fasce che acclama il suo pasto, allora lo calpestai con tutta la forza fino a ridurlo in poltiglia e, finalmente cessò di suonare. Mi sentivo stranamente euforica, libera; l’angoscia mi aveva indotto in uno stato risucchiandomi la razionalità e iniettandomi un’apparente febbre delirante ma, che ovattai nella razionalità perché non volevo assolutamente approfondire l’evento accaduto, sempre se non fossi stata in preda di qualche altra mistica allucinazione. Riaccesi la tv e mi apprestai a mangiare gli spaghetti ormai freddi e per nulla stimolanti. Notai che i miei gesti erano guidati inconsciamente, e lasciai che il mio corpo si muovesse al difuori della mente. Rimasi sul canale che per primo era apparso e non so, se fu la mia immaginazione, perché di nuovo la scena precedente si affacciò davanti ai miei occhi; La donna di spalle con la testa inclinata sembrava ascoltare le parole dell’uomo senza volto, mentre stavolta il mare taceva come spettatore, ascoltando quieto il sussurro dei due amanti. I gabbiani s’innalzarono in cielo in una danza senza note, mentre dipingevano ancora parole. Stavolta non ci fu bisogno di decifrare nessun messaggio, una sequenza descrisse in modo chiaro e fluido, ciò che il cielo, lasciò ai gabbiani il compito di inviare il messaggio. Sì, perché di questo si trattava: di un messaggio. Non volevo leggere e abbassai lo sguardo spegnendo quel marchingegno ma, senza volere rivolsi nuovamente lo sguardo sullo schermo che acceso da una mano invisibile, mostrò un’immagine scolpita come se fosse dipinta in una sfera.  Non potevo fuggire, anche perché sentivo le forze perdersi e, dileguarsi nel panico che mi agganciava alla poltrona. Ormai senza speranza di disertare ciò che stava accadendo, lessi le parole e scivolai in un pianto liberatorio. Il telefono che prima avevo distrutto, ora era lì, al solito posto e squillò; risposi tra il panico, l’incertezza che l’oblio mi aveva posto in un’assurda sensazione che scavava le mie emozioni.

“Pronto, sei tu?” chiesi rassegnata.

“Sì.”

“Perché?”

“Perché ti amo!”

“Io non voglio più amare!”

“Io invece voglio amarti.”

“Ma ho promesso…”

“Ma non che non ti si possa amare.”

“Tu mi ameresti, anche se non ti amo?” domandai ermeticamente.

“Sì.”

“Chi sei tu?”

“Sono chi tu vuoi.”

“Io.. io non so cosa voglio!” Lo disse a bassa voce, mentre le mani tremavano e la mente in subbuglio cercava un volto.

“Tu vuoi lasciarti amare?”

“E tu mii amerai per sempre?”

“Per l’eternità.”

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