Franco Mario Melazzini - Il mastello
07 giugno 2020
di Franco Mario Melazzini
Illustrazione di Victor Dabove
Il mastello
Non piove da tempo ed é estate. Sono a Rovescala. Il bambino sudato e sporco viene sottomesso a una strofinatura con la spugna o meglio a un bagno precario seduto dentro un mastello per il bucato, come se ci fossero dei mastelli per altre funzioni!
La lisciva e l´ennesimo uso adeguato (per lavare biancheria sporca) fin dall´epoca della nonna Emilia o magari, prima, della nonna Regina (morta nel ´18) lo ha fatto diventare quasi il símbolo delle lavandaie che hannodovuto strofinare , torcere, sciacquare e sbattere per anni la sporchizia accumulata nella biancheria.
Quasi quasi questo aggeggio cerchiato di ferro arruginito è diventato bianco, solo le venature del legno permettono di ricinoscerlo, del resto nemmeno una piccola fessura dimostra il modo artigianale con cui si fabbricavano allora gli oggettidi uso domestico.
Il mastello di riferimento è di una capienza adeguata, puó contenere, e di fatti contiene un bambino di circa sei anni, niente schiuma che possa rammentare sapone da bagno, solo l´acqua appena tiepida oppure fredda imbiancata da un sapone di origine dubbioso, mescolata con la luridura che apporta il bambino.
Si sa, la guerra e l´ideología del fascismo, ha messo in scenal´orgoglio patriottico dell´autarchia: fustagno, zoccole, corde tessute, tela incerata, lana di capra, di coniglio…
__ Mamma, cosa vuol dire autartico?
__ Mannó, bambino, si dice autarchico.
La voce della mamma o della zia alle quali accompagnavo di spesso alle compere per le loro necessitá del cucito o del rammendo, mi si rappresentano adesso.
__ Questa tela é di materiale autarchico?
__ Sì signora, stia pur sicura.
(Con la guerra bisogna arrangiarsi alla meglio, con la materia prima propia: niente o pochissimo cuoio, reciclaggio del feltro dei cappelli per fabbricare la suola delle pantofole, stracci multicolori arrotolati come delle sigarette e messi insieme col filo ad uso di tappeti–scendiletti, insomma, un paese i cui abitanti sono alle prese col pattume per tirar avanti).
Ritorno al mastello, apparecchio euclídeo di un tronco di cono invertito cha appoggia su una base circolare, messainsieme da cerchi di ferro, che tiene senza perdite, su questabase, seduto con le gambine incrociate, sento la netta e lisciasuperficie delle tavolette di legno comparabili, non allora, ma adesso ai manici delle vanghe e delle zappe, lísciatefino a diventare lucidissime dalle mani incallite dei contadini.
Sono nella sala da pranzo della casa del nonno Cesare, anche se questa denominata sfumatura gli stá un pó troppo grande, di fatto é l´ambito dove si mangia, costruito al primo piano di una vecchia casa piú larga che lunga, con due ingressi, in piú il portone della rimessa; a pian terreno varie stanze destínate agli zii.
Dopo una laboriosa distribuzioine dell´ereditá “dla cá e dlatéra” (1), ora ricordo le voci sbraitate degli zii e zie e delleloro furibonde discussioini da non finire per mettersi d´accordo nella distribuzione della casa e della terra ereditata.
(Lo zio Domingo infuriato aveva picchiato la mamma, la bergamasca, vedova dello zio Tino (Fiorentino), un disperso in Russia dove si era arruolato volontariamente, essendo un convinto “fascistone”, reclamava a furia de grida “la sua parte” (Una ciocca di latte secondo il criterio pitocco della mamma); le mediazioni dello zio prete: zio Pierino o padre Pietro, fra tutti il piú rispettato e il meno meschino.
La familia di mia madre é composta da quattro figli maschi e quattro femmine, dopo la morte della nonna Regina, il nonno si risposa con una cognata vedova che a sua volta ha un figlio: lo zio Attilio (Tiliu), da questo secondo matrimonio nascono ancora due figli, in tutto 11, la casa ha capienza per tutti e in piú, quanto io ricordi, era in affitto un´appartamento al “Metu” con la moglie, un muratore di Rovescala.
Ritorno alla sala da pranzo, lunga tavola di legno grezzo, ruvido, sedie di paglia, pavimento di mattoni oramaiscavati dall´uso dal tempo, finestra e controfinestra, una guarda a Est, l´altra al tramonto, non ricordo se ci sia statoun camino, eppure sí, c´era.
Mi rimane di scrivere sul “sulé”, ossia il solaio, luogopoibito, chiuso a chiave, dove, le poche volte che lo percorsimi sembra di ricordare dei vecchi bauli, sedie sgangherate, polvere e una piccola scorta di mele e di noci poste a maturare.
In qualche altra parte ho giá descritto la cantina; la rimessa che a suo tempo conteneva il carro e finalmente destinata ad allogiare lo zio Enrico fino alla sua fine, uno zio tanto eccentrico e scapestrato quanto alcolico. Sul retro dellarimessa il fienile e uno sgabuzzino sottostante da mettereferri da lavoro.
(II)
Quanto poteva durare la pulizia di questo bambino? I cui calzari erano delle zoccoline con la tomaia fatta con una cinghia da scarto di tela “autarchica” della tapparella di una finestra, magari dell´appartamento di Novara: (Via Carlo Frasconi N° 1), inchiodata nello spessore della zoccola medesima?
Agggiungo che dopo il bagno, una volta asciugato e calzato con le zoccole, rivestito con mutandine e calzoncini, pure loro in ruvida tela autarchica e lasciato in disparte, l´acqua sporca o si gettava dentro al lavandino o addirittura si buttava dalla finestra nella strada, curando di non molestare persone o animali di passaggio, strada abastanza polverosa per la siccitá.
Descrivo scene domestiche dove i diversi personaggi parlassero poco o niente o fossero in/sé/medesimati, ognuno nel suo mondo.
In quanto a questo bambino era di solito il suo silenzio, colmo di libertá che non poteva godere in cittá, varcava la porta di uscita appena dopo la prima colazione, composta di latte appena munto, portato di buon´ora chissá da che stalla o che cascina, dove sommergeva pezzetti di pane nero o bigio, raffermo, spezzati dal resto di una grossa pagnotta paesana sfornata nei giorni precedenti, sempre che quel pó di farina nera che era lecito impastare per il pane non fosse perquisito dai questurini del fascismo. Pan nero che ordinariamente faceva le veci della piú sovente polenta fredda.
Il latte si serviva nelle vecchie scodelle di legno, rozze, malamente torniate (Quelle a buon mercato) fin da fino rumannerite dall´uso di miscela (cicoria, poco zucchero e forsequalche fantasma di caffé dei buoni tempi) magari di prima della grande guerra, quando il nonno dovette arruolarsi e per la pandemía dell'influenza morí la nonna.
Non oso parlare della tessera di razionamento alimentare della guerra perché in campagna ci si poteva nutrire con cibi extra, messi in disparte e nascosti o in cantina o nel solaio.
In compagnía della sua solitudine e con poche raccomandazioni materne, questo bambino scendeva lungola valle ancora ombrosa.
__Non pestare il seminato,… non arrampicarti sui frutteti,…stai lontano dal pozzo d´acqua che ha il coperchio rotto…non mangiare l´uva che é ancora acerba.
Insomma, proibizioni ritenute minori, dette a caso da una mamma indaffarata da altro.
Come un bambino piccolo era lasciato allora solo per girovagare in campagna? Lui era abituato: gli svaghi e le avventure campagnole in solitudine compensavano la noia cittadina di questo piccolo rinchiuso in un apartamento al quarto piano.
La brina o la rugiada che dir si voglia, facevano scivolare i suoi piedi che scappavano in avanti attraverso la tomaia bagnata, niente male, provava a camminare a piedi nudi, ilritorno a un´esperienza avventurosa, volendo imitare i bambini piú azzardati del paese, lui considerato un fifí di cittá.
Si svagava osservando una natura mista, i filari delle viti, l'erba incolta dei sentieri e della carreggiata, fiori gialli che parevano piccole margherite composte.
Ora rivedo quel tempo come un film muto, dove la continuitá dei movimenti e delle azioni, risorgono a strattoni, interrotti dalle distrazioni presenti: il rumore quieto del ventilatore, l'opaco battito del tasti della computer, il tenso silenzio della canicola, ora che sono seduto nudo alla fine di quest´anno, per molti fatídico, e poi vengono riallacciati al modo delle edizioni filmiche. (Per lo meno lo sto intentando ora).
Suoni, ronzii, profumi, canti e zufolate, maggiolini e lucertole fuggiasche, colpi di scure lontani che mi arrivanopoco dopo , qualche ape pericolosa e il sole che sguscia (“sorge”) dalla collina di Vicobarone.
Pure mi intrattiene il battito delle campane della Chiesa di San Damiano, che suonano la mezza rompendo la quiete mattiniera, anche perché ogni giornata ha la sua messa e per tre volte si odono le campane che ricordano alle vecchie donne beghine l´abitudine di sentire messa.
Mentre le massaie e i contadini hanno da tempo già incominciato il loro lavoro.
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News » Il racconto della Domenica | domenica 07 giugno 2020
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