"Dimmi chi sei"

21 agosto 2016

di D.M. Winters

Capitolo Uno: “Ti sei spaventata?”

 

Quando l'ambulanza arrivò, tutto era ormai risolto.

La mia insegnante di danza, Alessia, aveva avuto un altro dei suoi attacchi di tachicardia, causati da ansia e stress - così ci diceva. Nonostante avesse da poco raggiunto i cinquant'anni e fosse ancora una donna piuttosto atletica, questi disturbi cominciavano a farsi più frequenti, ritornavano quasi una volta al mese.

Oggi, però, era durato più a lungo. Alessia si era accasciata a terra, stringendosi forte con le sue stesse braccia. Le sue grida ci immobilizzarono. Stavamo provando la prima scena del secondo atto de La Bella Addormentata di Tchaikovskij. A me non dispiaceva essere interrotta, non ero io la protagonista. Ma assistere alla scena mi fece rabbrividire. Nessuna di noi perdeva mai contatto visivo con l'insegnante. A lei piaceva modificare la coreografia mentre veniva eseguita, e quindi noi dovevamo stare sull'attenti, pronte a possibili nuovi ordini. Grazie agli specchi con i quali aveva fatto ricoprire completamente le pareti, potevamo avere gli occhi puntati su di lei in qualsiasi momento.

La nostra compagna Angela aveva subito chiamato l'ambulanza. Ci eravamo spaventate troppo: questo è quello che l'insegnante ha affermato non appena si era ripresa e aveva finalmente potuto parlare. Lei era preoccupata tanto quanto noi, e io cominciavo a credere che questi attacchi non fossero causati solamente dall'ansia.

Ci fece andare a casa senza concludere le prove. Avrebbe dovuto eseguire degli accertamenti all'ospedale e nessuna di noi comunque se la sarebbe sentita di proseguire. Non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine della nostra Alessia che cadeva, e urlava. Non volevo pensare che sarebbe potuto succedere ancora, e ancora.

“Ginny, vai a casa subito o vieni con me e le altre a mangiare un gelato? Così magari ci tiriamo un po' su...”

“No, grazie, Camilla. Vado a casa, ho bisogno di stare un po’ da sola.”

Entrai nello spogliatoio, dove c'erano già Laura e la sua fedele amica Anna; non potei che ignorarle. Laura era la protagonista in La Bella Addormentata, ed essere la protagonista significava avere tutte le carte in regola per poter entrare nel corpo di ballo del Memorial Tchaikovskij. Più passavano gli anni, più perdevo la speranza che un giorno quel posto sarebbe stato mio.

A metà Marzo, la nostra Scuola di Danza avrebbe partecipato al Festival di Primavera a Roma. Solo cinquanta Scuole di Danza in tutta Italia venivano ammesse, e da più di trent'anni la nostra era tra quelle e faceva sempre il suo meraviglioso figurone. Ogni scuola eseguiva un ballo che veniva valutato da una giuria di sette grandi professionisti, tra cui Sveva Lazzarini e Kristoff Kotov - i migliori ballerini al mondo - almeno, per me. Delle prime dieci scuole classificate venivano poi valutate singolarmente le ballerine soliste nei loro assoli.

Il Presidente del Memorial Tchaikovskij, Pietro Aleotti, faceva parte della celebre giuria e si distingueva per la severità nelle sue votazioni: era sempre in cerca di nuove componenti per il suo corpo di ballo. Spettava a lui scegliere se e di quante ballerine avrebbe avuto bisogno. C'erano anni in cui venivano selezionate anche tutte e dieci, la maggior parte delle volte non più di quattro, e l'anno scorso ne preferì solo una.

Volevo essere scelta, avere gli occhi di Pietro Aleotti puntati su di me. Volevo diventare qualcuno, girare i più grandi teatri d'Italia. Ma ancora una volta avrei dovuto attendere almeno un altro anno.

Mi infilai velocemente pantaloni e felpa della tuta della scuola sopra il body e cambiai le ballerine con le mie scarpe da ginnastica; dopo essermi sciolta i capelli, legati in uno chignon, salutai frettolosamente chi si stava ancora cambiando e uscii finalmente all'aria aperta. Avere finito un'ora prima del previsto era un'ottima opportunità per tornare a casa a piedi, con più calma, invece di chiedere un passaggio ai genitori di Camilla, o chiamare mia mamma - com'ero solita fare.

Adoravo camminare in compagnia della mia amica musica. Erano sempre così pochi i momenti che potevo dedicare a me stessa, viaggiare col pensiero, fermarmi ad osservare i più piccoli dettagli che Madre Natura aveva creato per noi: le foglie dai colori caldi degli alberi fluttuavano, come danzando, prima di cadere a terra; gli uccelli, dai loro nidi, davano il loro ultimo saluto al sole, prima che questo lasciasse il suo posto alla luna; il cielo si colorava di rosa ed arancio, per poi lentamente farsi scuro, cosicché potesse essere possibile ammirare le piccole, luminose stelle che giocavano lassù.

Così profondamente assorta nei miei pensieri, mi fermai sovrappensiero ad osservare il meraviglioso paesaggio dinanzi a cui mi trovavo; avevo scelto di percorrere la strada secondaria per tornare a casa, quella che si immergeva tra i campi e che io e mia madre definivamo la scorciatoia, l'alternativa veloce e tranquilla alla strada principale, troppo trafficata e piena di semafori, che a volte allungava il tragitto di cinque minuti o più.

Oltre al recinto sul quale mi ero appoggiata, si trovava la scuderia del mio paese. Mio padre me ne parlava sempre quando ero bambina. Tanti dei cavalli che lì venivano allevati erano grandi protagonisti di gare di velocità, che si tenevano in Provincia una volta all'anno. Mai avrei dimenticato quanto tempo mio nonno avesse trascorso assieme ai suoi amici ad osservare attentamente quei campioni a quattro zampe, per sapere in anticipo su chi puntare quando sarebbero cominciate le gare. Spesso mi portava con lui, e io non dicevo mai di no. Una delle ultime frasi che mi disse prima di abbandonarci, due anni fa, fu di puntare sempre su un cavallo nero.

E proprio all'altra estremità del recinto un cavallo nero sfiorava l'erba con il muso. Era così bello ed elegante, volevo toccarlo.

In un attimo avevo già oltrepassato la recinzione, lasciando la borsa di danza ad aspettarmi, sola, sul marciapiede dall'altra parte. Mi avvicinavo a lui lentamente, ripensando ai bei momenti che avevo trascorso all'interno di queste scuderie con mio nonno. Il proprietario era un grande uomo dal cuore d'oro, e si occupava dei suoi amici cavalli insieme alle due figlie e ai tanti lavoratori che aiutavano a mantenere l'ottima tenuta di una così immensa zona. Proprio Giuseppe, il proprietario, lasciava libero accesso a chi volesse entrare e Stefania, una delle figlie, si proponeva di fare un piccolo tour per venire a conoscenza di tutti i cavalli, raccontandone la storia e il percorso compiuto sin dalla nascita; io, da bambina, non potevo che ascoltare avidamente, facendo mio ogni piccolo dettaglio.

Quando ero giunta ormai a metà strada, il cavallo mi guardò con l’occhio destro. Mi fermai, osservandone la perfezione dei lineamenti, la criniera pulita e ben spazzolata che ricadeva lateralmente... Non feci in tempo a sorridere, che l'animale cominciò a correre. Verso di me.

“Oddio,” sussurrai a me stessa. Mi mossi anch’io il più rapidamente possibile, verso il recinto, verso la mia borsa, verso la salvezza. Non ero sicura di cosa avrebbe potuto farmi quel cavallo, ma se funzionava come con i cani, probabilmente non era felice che avessi invaso il suo territorio, e desiderava quindi liberarsi solo di me. Lui era un velocista, io una semplice ballerina. E solo quando riuscii a scavalcare il recinto fui consapevole di avercela fatta. Fino ad allora, solo speranze.

“Volevo solo accarezzarti, stupido cavallo!” Gli urlai, e me ne pentii subito. Si alzò sulle due zampe posteriori, come in tono di sfida, come se quella fosse davvero la sua risposta. Ma non saltò il recinto. E avrebbe davvero potuto farlo.

“Sei impazzita?”

Un ragazzo con una buffa camicia a quadri rossa e blu si avvicinava di corsa; sembrava arrabbiato, ma non ce n'era davvero motivo di esserlo. Mi misi la borsa a tracolla, come se potesse essermi di conforto.

“Ti sei spaventata?”

“Va tutto bene, volevo solo-”

“Non dicevo a te,” mi disse, voltandosi finalmente verso di me. Sorrise. Quasi rimasi a bocca aperta dalla sorpresa, ma cercai di camuffare l'imbarazzo del momento. “Perché sei entrata nel recinto?”

“Scusa,” dissi, abbassando lo sguardo.

Il ragazzo rise. “Devono piacerti davvero tanto i cavalli per azzardarti a fare una cosa del genere.”

“Ci venivo spesso, qui, anni fa, e sinceramente non mi ricordo di nessun cavallo o cavalla,” dissi con enfasi, rivolgendomi all'animale, come se potesse capirmi, “che abbia avuto un comportamento simile.”

“Giumenta.”

“Come?” Lo guardai, perplessa.

“Si dice giumenta, non cavalla,” si spiegò, sorridendo. Sorrisi anch'io. “Vuoi fare un giro? A vedere gli altri cavalli, intendo.”

“Un'altra volta, devo tornare a casa.”

Se un'altra volta significava che Alessia doveva avere un altro attacco e quindi sospendere le prove, allora speravo solo che un'altra volta non arrivasse mai.

“Un'altra volta, quando?”

“Non lo so, quando capiterà di nuovo. Abito qui vicino.”

“Io sono Max, e lei è Diana,” disse Max, accarezzando la giumenta. Avrei voluto farlo anch'io. E poi un silenzio imbarazzante, forse toccava a me presentarmi, ma qualcosa mi spinse a non farlo. “Ci vediamo, allora,” aggiunse Max.

Sorrisi senza rispondere, e me ne andai. Non riuscii ad ignorare l'immagine di quel ragazzo, che mi perseguitò per tutto il tragitto verso casa. I suoi occhi profondi color cioccolato rimasero stampati nella mia mente, come se mai volessero abbandonarmi. E nonostante i miei tentativi di cacciarli e creare altre immagini che potessero sostituirli, loro continuavano a comparire, infilandosi prepotentemente tra i miei pensieri.

“Ginny, sei tornata prima del solito. È successo qualcosa?”

Mia mamma mi fece entrare in casa e mi seguì in cucina. Avevo terribilmente fame.

“Alessia è stata male,” risposi, al solo pensiero un brivido mi percorse la schiena.

Le raccontai di quanto era accaduto mentre mi preparavo un toast, nonostante lei mi avesse ripetuto già un paio di volte che avremmo cenato a breve.

“Perché non hai chiamato che venissi a prenderti?”

“Avevo voglia di tornare a piedi.” Affondai i denti nel mio toast non abbastanza caldo, e mi allontanai da lei in cerca di mio fratello. “Dov’è Giò?” le chiesi, prima di oltrepassare la porta.

“È uscito con Andrea.”

“Addirittura? Niente play oggi pomeriggio?”

Mia mamma rise, perché entrambe sapevamo bene quanto Giò fosse ossessionato dai videogiochi.

“Avranno trovato qualcosa di meglio da fare.”

“Certo, non lo metto in dubbio.” Probabilmente saranno andati a caccia di ragazze. Ah, i maschi. Ed ecco gli occhi di Max tornare vividi di fronte a me. Maledizione.

“Mamma, vado in camera a sdraiarmi un po’. Chiamami quando è ora di preparare per la cena, che vengo a darti una mano.”

“Sì, certo!”

Corsi immediatamente al piano superiore, e, con quello che rimaneva del mio toast, in una mano, mi sdraiai sul mio letto.

La fuga da quella giumenta mi aveva davvero sfinita.

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News » Il racconto della Domenica - Sede: Nazionale | domenica 21 agosto 2016