Antonio Miccichè, le raffinate “Stagioni di Caccia” alle Officine Bellotti di Palermo

24 aprile 2025

La precisione del segno, il suo nitore, la raffinatezza dei trapassi chiaroscurali, i giochi tonali delle cromie (nelle meno numerose opere a colori), il formato decisamente miniaturistico sono tutti connotati che rimandano a una tecnica virtuosistica degna d’altri tempi: ovvero ad un approccio al disegno e alla pittura tipici d’un amanuense o d’un miniatore di antichi codici illustrati a mano.

Sarebbe però una “deminutio” classificare l’operato di Antonio Miccichè adottando il mero criterio dello stupore e della meraviglia di fronte a cotanta acribia nel tratteggiare e colorire. Perché i disegni, gli acquarelli ed anche le pochissime sculture (anch’esse di taglio miniaturistico) non  sono soltanto dei piccoli capolavori di stupefacente controllo della linea, del colore e della materia plasticata, ma sono dei distillati visivi nei quali si condensa intensamente una non comune attitudine alla cogitazione per immagini ed all’accurata descrizione (non solo formale, ma densa e profonda) dello stato delle cose.  

Non è un caso, pertanto, che Antonio – a prescindere dal fatto che ritragga soggetti esterni o ambientazioni interne – metta quasi sempre in scena contesti contrassegnati da assoluta desolazione, nei quali (tranne che nelle sculture) non si ravvisa (se non indirettamente, attraverso oggetti vari) alcuna presenza umana. Una misantropia – per così dire – che è una preponderante cifra stilistica e che rimarca una esigenza visiva di purità (come se la figura umana costituisse una interferenza) e di assolutezza (senza alcun “decoro accattivante”) in grado di garantire, sfrondando ogni orpello “disturbante” e ponendo la “giusta distanza”, il contatto più diretto ed immediato non solo con l’esteriorità del dato ottico in esame ma soprattutto con quanto alberga e si cela nel suo profondo. Metodica progettuale ed operativa – questa di Miccichè – che consente, mercé la perfusione di un’aura metafisica, l’affioramento di delicate risonanze liriche e la percezione – da parte dell’osservatore – d’ogni minima loro vibrazione visuale.

Qui è una elegante natura morta ad avvolgere chi guarda con la sua ieratica assolutezza; altrove è la desolazione di un’aula vuota a caricarsi di sottili suggestioni; ma è soprattutto nella variegata gamma di paesaggi (alcuni quasi microscopici) che la finissima tecnica esecutiva dà luogo a un susseguirsi di declinazioni tutte capaci di irretire magneticamente lo sguardo grazie ad un lirismo evocativo dai connotati suadentemente ermetici.

Non meno impattante la limitata serie di piccole sculture che, animate da un sapiente gioco di luci ed ombre, risucchiano gli astanti nelle profondità intrapsichiche dell’autore; in quel meandro di inquietudini ed ubbie, di alternanza di narcisismo e melanconia che rende a perfezione la condizione esistenziale dell’artista (e in fondo di tutti noi).

La mostra Stagioni di caccia, curata da Sergio Troisi, sarà visibile fino al 29 aprile alle Officine Bellotti di Palermo (per gli orari consultare www.officinebellotti.it).

di Salvo Ferlito

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