Migranti, storie dietro la fila per il cibo
29 novembre 2024
Francesco Micheletto è in coda dalle 7 del mattino al Pane Quotidiano di via Toscana a Milano. Nato a Milano, ha vissuto fino a poco tempo fa una vita scandita da orari quotidiani di lavoro presso un’azienda d’impianti elettrici. Poi la ditta dove lavorava chiude e lui, poco dopo, divorzia. Per Francesco è un colpo tremendo; la perdita del lavoro lo spinge ai margini. Con un diploma da perito elettronico e una carriera in grandi aziende, Francesco ha visto il suo mondo crollare anche perché, poco più che cinquantenne, ha cominciato a non trovare più un'occupazione. «Le ultime due aziende per cui ho lavorato sono fallite, l’ultima a causa del Covid», racconta amaro. Ora vive in un monolocale di 18 metri quadrati a Pavia, dove l'affitto è più basso rispetto a Milano, ma la domanda che si pone è sempre la stessa: «Chi mi darà più lavoro a sessant'anni?».
Non troppo lontano da Francesco, c’è Abnet “Abyss” Habtemariam, nata a Peschiera Borromeo da genitori eritrei. Anche lei, pur essendo cittadina italiana, lotta con la precarietà. Lavora in un call center, ma i suoi contratti sono sempre temporanei, pochi mesi alla volta, con la costante paura di restare senza reddito. «Che precarietà di contratti!», esplode frustrata. Nonostante sia nata e cresciuta qui, Abnet fatica a trovare il suo posto in una società che spesso guarda con sospetto chi ha origini straniere, anche se lei è italiana a tutti gli effetti.
Secondo i dati pubblicati dall’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, del censimento permanente della popolazione italiana, emerge che il numero dei senza tetto e senza dimora è aumentato.
Anche se questi dati sono riferiti al 31 dicembre 2021, si può notare che - da questa ricerca che fotografa diversi gruppi anagrafici - il trend è in costante aumento.
Senza tetto di lunga durata, mariti divorziati, persone che hanno perso il lavoro: la lista è lunga di chi fa la fila per fare una doccia all’Opera San Francesco o di chi, munito di borsa della spesa, si mette in coda al Pane Quotidiano per racimolare cibo. La fila si dipana inesorabilmente lunga dal lunedì al sabato, anche perché questa associazione caritatevole non ti chiede documenti, permessi di residenza o di soggiorno.
Senza tetto di lunga durata, mariti divorziati, persone che hanno perso il lavoro: la lista è lunga di chi fa la fila per fare una doccia all’Opera San Francesco o di chi, munito di borsa della spesa, si mette in coda al Pane Quotidiano per racimolare cibo. La fila si dipana inesorabilmente lunga dal lunedì al sabato, anche perché questa associazione caritatevole non ti chiede documenti, permessi di residenza o di soggiorno.
PRECARI PER SEMPRE
Le storie di Francesco e Abnet si intrecciano con quelle di molti altri invisibili che cercano di sopravvivere in un contesto ostile. Amsa Salma, ad esempio, ha lasciato Marrakesh, in Marocco, per cercare una vita migliore in Italia. Guadagnava solo 200 euro al mese come muratore nel suo paese e, con l’aiuto della famiglia, ha raccolto i soldi necessari per trasferirsi a Milano. Ora è in fila, anche lui al Pane Quotidiano, consapevole che i suoi bisogni primari sono soddisfatti, ma mancano quelli fondamentali come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. «In Marocco, come in Italia, tutto è mafia: lavori solo se hai delle conoscenze», riflette con amarezza.
Tra i più giovani c’è Makan Salup, 21 anni, arrivato dal Senegal per sfuggire alla guerra civile. La sua è una storia di oppressione e persecuzione, gli occhi parlano più delle parole, che esprime in un italiano pessimo e appena sussurrato, quando racconta di essere stato costretto a lasciare la sua terra. Nonostante le difficoltà, Makan non ha perso la speranza di costruirsi una vita migliore, ma l’Italia sembra offrirgli solo indifferenza.
Maria Montero, invece, è arrivata dalla Repubblica Dominicana nel 2015, seguendo la figlia sposata con un italiano. Quando il marito della figlia è morto improvvisamente, le due donne si sono trovate senza lavoro, lasciate sole a se stesse. «Il marito di mia figlia aveva un bar in a Milano in viale Monza, e noi lavoravamo tutti lì», racconta Maria. Dopo la sua morte, Maria ha dovuto reinventarsi, trovando piccoli lavori come badante e donna delle pulizie. Oggi, grazie a un'altra figlia, è riuscita a entrare in una cooperativa che le ha offerto un impiego nei musei milanesi come addetta all’accoglienza: «Ma quando esci fuori - riflette Maria - ti rendi conto che tutti sembrano aiutarti, ma nessuno ti ama davvero».
SOCIETÀ COLPEVOLE?
Un sistema che ti dimentica.
Queste storie raccontano di persone che, per un motivo o per un altro, si trovano ai margini della società. Non sono solo migranti o senza fissa dimora, ma anche italiani che la società - il sistema Paese - ha dimenticato. Il Pane Quotidiano offre un aiuto essenziale, ma non basta. Mancano politiche di inclusione, opportunità di lavoro stabili, accesso alla sanità e alla formazione. Una dimora fissa, magari esclusiva; in molti attendono una casa, un’abitazione tutta per loro per poter ripartire. In una società che sembra pronta a offrire aiuto materiale, resta una profonda solitudine emotiva e sociale.
Francesco, Abnet, Amsa, Makan e Maria rappresentano una fetta di umanità che fatica a integrarsi.
Invisibili ai più, reietti per necessità più che per scelta. La loro lotta quotidiana non è solo per il cibo, ma per un posto nel mondo, per una dignità negata.
Testo di Roberto Dall'Acqua
Foto di Aaron Logan
Video di Marika Prudenzano
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