Solo piccoli uomini uccidono le donne
03 agosto 2016
di Mariangela Mombelli
“Lucca, morta la donna data alle fiamme. Arrestato collega con cui aveva avuto una relazione”…
“Caserta, uccide la compagna e si costituisce…”
Parlare di femminicidio non basta più. C’è il rischio di assuefarsi alla notizia, di considerare la prossima vittima come una in più in una contabilità dell’orrore che, storicamente e culturalmente non è mai stata e non sarà mai in pareggio. Il termine “femminicidio” è stato teorizzato negli anni ’90 da un’antropologa messicana, Marcela Lagarde, che l’ha definito così: “La forma estrema di violenza di genere contro le donne – scrive Lagarde – prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”. Nella lingua italiana la parola “femminicidio” esiste solo dal 2001, fino ad allora l’unico termine esistente a significare l’uccisione di una donna era uxoricidio, che alludeva all’uccisione della donna in quanto moglie e non in quanto donna. Il femminicidio è solo l’atto finale: la violenza e la violazione iniziano prima, molto prima dello scorrere del sangue, o del bruciare del corpo cosparso di benzina e dato alle fiamme. Il femminicidio è l’esercizio di potere che l’uomo e la società fanno sulla donna in quanto donna perché il suo comportamento risponda alle aspettative dell’uomo e della società patriarcale. E’ la più antica forma di oppressione esistente e resistente. E’ la punizione quotidiana per ogni donna che non accetta di ricoprire il suo ruolo sociale, in ogni cultura, ad ogni latitudine, in ogni classe sociale. E’ l’incapacità dell’uomo di fare i conti con la propria debolezza e il proprio fallimento, in una società che continua ad attribuirgli posizioni di dominio, a volerlo vincente. E’ questo Stato che taglia i fondi e chiude i Centri Antiviolenza, che quasi sempre sopravvivono grazie grazie all’autofinanziamento, al lavoro volontario delle operatrici, costretti a vedersela con le magagne degli enti locali e con il tanto decantato “Piano nazionale contro la violenza sulle donne” chiuso in chissà quale cassetto dei palazzi romani.
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