BREXIT: CHE COS’È?

28 settembre 2019

di Jon Jonson

Qui vi offro un viaggio surreale nel labirinto di specchi chiamato Brexit, prendendo spunto da alcune parole chiave del dibattito.Cominciamo dall’inizio: il referendum. Perché si fa? In breve, da circa 30 anni all’interno del Partito Conservatore si litiga sull’Europa. Una fetta di deputati di destra, una volta chiamati Eurosceptics, è ostile all’UE e a tutto ciò che rappresenta.Per di più, con la nascita di UKIP (United Kingdom Independence Party) di Nigel Farage i Tory si trovano minacciati alle urne. La propaganda contro l’Unione Europea è una costante della vita politica inglese degli ultimi 30 anni, non è una novità: i concetti sono semplici, l’Europa sarebbe un danno alla sovranità della Gran Bretagna, l’Europa sarebbe un mostro burocratico gestito da persone non elette che vuole diventare una specie di stato federale europeo. Per neutralizzare il pericolo di perdere seggi, Cameron, il candidato premier dei Tory, nel 2015 promette un referendum.

Un appunto costituzionale: in Gran Bretagna è sovrano il Parlamento, non è sovrano il popolo, e un referendum non è di per sé vincolante. Non si fanno praticamente mai i referendum in Gran Bretagna, è tradizionalmente un paese molto ostile a qualunque forma di democrazia “popolare”. In paesi dove il referendum ha valore legale, come in Italia, il quesito del referendum è soggetto a severi controlli giuridici per garantirne la validità e perciò l’esito del referendum stesso. In Gran Bretagna nel 2016, invece, questo dettaglio viene gestito – tecnicamente parlando – alla cazzo. Il quesito pare molto semplice, ma è assurdamente vago: Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union? Il voto consiste nella scelta tra le due risposte: Remain o Leave.

Come c’era da aspettarsi, tutte le istituzioni del paese hanno fatto campagna per Remain: i partiti principali, le aziende, i sindacati, tutti. Per Leave si sono dichiarati solo due politici significativi del partito di governo, Boris Johnson e Michael Gove. Occorre dire che la campagna per Leave è stata farcita di falsità e promesse improbabili. Ma occorre pure ammettere che il fronte di Remain ha cercato solo di fare terrorismo, sicuro di poterla vincere senza nemmeno impegnarsi tanto. Come si sa, il risultato è stato Leave, con una maggioranza risicata: 52-48.

Al referendum hanno votato per Remain sia la Scozia sia l’Irlanda del Nord. Hanno votato Remain Londra e alcune delle grandi città più multietniche dell’Inghilterra. La maggior parte del voto Leave arriva dalle zone del paese che hanno subito di più il declino industriale e l’austerity più brutale degli ultimi 50 anni – paradossalmente i luoghi che hanno beneficiato di più dei fondi europei (le vallate economicamente disastrate del Galles ad esempio) – e l’economia globale (a Sunderland, dove ha sede la Nissan europea). Persino i pensionati inglesi residenti in Spagna hanno votato Leave: sì, la Brexit offre scorci di un mondo dove la logica e l’intelligenza di base non esistono più. Se chiedi a questi ultimi per quale cacchio di motivo hanno votato Leave ti diranno qualcosa del tipo: “mah, l’Inghilterra è cambiata, ci sono troppi stranieri” (sì, l’ironia involontaria è il loro forte); “per noi non cambierà niente, la Spagna ha bisogno dei nostri soldi” (da notare il calo del valore della sterlina dal 2016 a oggi). Il ragionamento si ferma qui: non pensano, ad esempio, che i diversi cittadini britannici che lavorano in Spagna proprio per fornire servizi a loro dopo la Brexit saranno in seria difficoltà.

A proposito di “stranieri”, al referendum non hanno potuto votare i 3 milioni di cittadini UE (non britannici o irlandesi) residenti in Gran Bretagna nel 2016. Né hanno potuto votare i cittadini britannici residenti all’estero da molti anni.

Politicamente Leave è un fenomeno che unisce elettori di destra e di sinistra, e la spaccatura tra Leave e Remain colpisce entrambi i grandi partiti (Labour e Tory), ma non i partiti minori, che hanno elettori più schierati. È questo il motivo principale per cui i laburisti ancora oggi non possono allinearsi apertamente con Remain o proporre di cambiare idea, anche se il partito è chiaramente meno ostile alla UE.

Una fetta importante del “Popolo del Leave” è sicuramente rappresentata da persone che hanno perso molto nel corso degli ultimi 30 anni, gli anni in cui è esplosa la disuguaglianza sociale ed economica in Gran Bretagna. Ma è anche un popolo anziano, fieramente inglese , tendenzialmente nostalgico di un’epoca in cui il proprio paese “comandava nel mondo”, arrabbiato a priori, benestante, ostile all’immigrazione; è anche però la parte di popolazione che ha decisamente meno da perdere dalle rinunce rappresentate dalla Brexit, come la libertà di cercare lavoro in altri paesi europei, che è da sempre un fenomeno minoritario in un paese monoglotta come la Gran Bretagna. Una parola nuova, spregiativa, esiste per gli uomini di questo tipo: sono i gammon, maschi bianchi con la faccia rosa per la rabbia – come, appunto il gammon, il prosciutto cotto. Dall’altra parte è stato molto facile per loro bollare il “popolo del Remain” come un’élite metropolitana di privilegiati (non è un’immagine falsa, ma stiamo parlando della metà del paese, quale élite!).

Il giorno dopo la sconfitta, si dimette il Primo ministro, David Cameron , lasciando il paese nella confusione totale. Non esisteva alcun piano per affrontare la Brexit. Non esisteva alcuno studio delle sue conseguenze. In poche parole, nessuno in Gran Bretagna sapeva cosa significa l’uscita dall’Unione Europea né come affrontarla, né esistono regole europee per gestire questo evento senza precedenti. E qui ebbe origine lo slogan di Theresa May che esprime tutto il vuoto ideologico e politico del dibattito che seguì: Brexit means Brexit. Cioè, tutto e nulla.

Nasce in questo istante un virus che infetta tutto ciò che viene dopo. A un Parlamento di maggioranza Remain si chiede di implementare una misura epocale con cui non è d’accordo, anche se tutti dicono di voler rispettare il risultato; il nuovo primo ministro, Theresa May, ha fatto campagna per Remain. Si genera una spaccatura  tra il Popolo e Le Istituzioni. Quale migliore occasione quindi per i più cinici dei politici per ergersi a Difensori del Popolo, portatori di valori che prevalgono su qualsiasi altra considerazione, politica, istituzionale, legale che sia? E non esistono politici più cinici di Boris Johnson, Jacob Rees-Mogg e Nigel Farage. La frittata è fatta.

E c’è di peggio. Con il voto del 2016 l’elettorato non ha fatto altro che esprimere un parere piuttosto vago: sì, il 52% della popolazione ha detto Leave, ma nessuno ha specificato cosa significasse Leave . Che tipo di accordo vogliono quelle persone che hanno votato Leave? Vogliono solo uscire dal Single Market (il mercato unico)? Vogliono bombardare la casa di Jean-Claude Juncker con gavettoni riempiti di formaggio Stilton ? Ciò ha permesso agli ultrà più estremi, rappresentati dalla figura ineffabile di Jacob Rees-Mogg e da una corrente dei Tory chiamata ERG (European Research Group), di far passare, poco alla volta e insistentemente, il messaggio che la “vera” Brexit sia il cosiddetto no deal, cioè l’uscita senza accordo. La vera difficoltà nella trattativa con l’UE, secondo i giacobini della rivoluzione Brexit, è che la May e i suoi non sono abbastanza convincenti. Solo un governo di veri fedeli sarebbe in grado di portare una battaglia che comincia ad assumere la fisionomia di una guerra santa. Nel frattempo, per scrupolo, la destra del partito conservatore fa in modo che non passi alcun accordo al Parlamento: i compromessi diventano segno di debolezza, di tradimento della volontà popolare.

Nasce qui un’altra bella parola: remoaners. Si dice: quelli che vogliono restare nell’UE non fanno altro che lagnarsi (moan) anziché accettare il risultato democratico del referendum. Ed è vero, il 48% della popolazione non accetterà mai il fatto di non far parte della UE, e perché dovrebbe? La campagna per Leave si fondava su argomenti falsi e/o bugie. Non si perde l’opportunità di dare del cretino o del credulone a chi ha votato Leave.

Una osservazione sulle parole di questa vicenda. La scelta, per definire la questione, dell’espressione no deal, che riprende il titolo del programma televisivo Deal or No Deal (sì, quello dei pacchi), dà un’idea non solo della gravità della scelta ma anche del livello intellettuale del dibattito. Si parla anche di crashing out, termine che si usa per l’uscita di pista di un’auto Il dibattito parlamentare attorno al potenziale accordo assunse subito toni piuttosto surreali. Per i parlamentari britannici pareva fosse una trattativa a senso unico, come se l’Unione Europea non avesse voce in capitolo, e come se fosse inevitabile che, per raggiungere un accordo con un potere economico di importanza mondiale quale la Gran Bretagna, la UE sarebbe stata propensa ad accettare qualsiasi porcata. Per molti sostenitori della Brexit, il rapporto di forze nella trattativa con l’UE era (ed è) nettamente a favore della Gran Bretagna. Da cui due osservazioni: in primo luogo, queste persone non hanno mai capito il reale peso del Regno Unito nell’economia mondiale del XXI secolo (Johnson stesso ha detto che l’accordo con la UE sarebbe stato “quello più facile della storia”). Poi, lasciare che gli elettori credessero a questa puttanata faceva molto comodo; secondo questa logica qualsiasi accordo giudicato insoddisfacente può essere presentato come frutto dell’inadeguatezza di chi conduce la trattativa.

Per inciso: Boris Johnson non è il suo nome completo. In realtà si chiama Alexander Boris de Pfeffel Johnson ed è l’ennesimo primo ministro aristocratico formatosi a Eton, la scuola privata inglese di élite che più élite non si può. “Boris” è una specie di marchio, una trovata di marketing, lo rende “simpatico” a molti, è un po’ buffo, un po’ divertente, ha un modo di parlare che richiama Hugh Grant in Quattro Matrimoni e un funerale, farcito di citazioni colte , ha studiato lettere classiche a Oxford, notoriamente la laurea preferita dei ricchi poco brillanti. Ha capelli fantastici, biondi e spettinati; ha partecipato come ospite a programmi di satira della BBC; da giornalista ha scritto articoli “spassosissimi” in cui inventava di sana pianta misure dell’Unione Europea per far arrabbiare i lettori inglesi propensi a credere a qualsiasi minchiata. È passata alla storia la bufala delle straight bananas (cioè delle banane non abbastanza curve) che avrebbero messo fuori legge i famosi “burocrati non eletti” di Bruxelles. Una volta Johnson è stato licenziato dal Times perché aveva inventato materiali (citazioni di fonti inesistenti). Ma è diventato sindaco di Londra lo stesso, poi anche Ministro degli Esteri, sempre con esiti disastrosi. Ha anche parlato con un amico, un vecchio compagno di scuola, ovviamente, proponendo di aiutarlo a far picchiare un altro giornalista colpevole di aver scritto cose scomode. Che tipo divertente, vero? Il nostro caro Boris ha inventato pure il cakeism: la parola deriva dall’inglese to have your cake and eat it, e spiega la sua politica nei confronti della trattativa con la UE. Vuole la moglie ubriaca, ma anche la botte piena. E non accetta compromessi. Chiaro? Poi è diventato Primo ministro: a quanto pare la figura del ragazzino birichino da prendere a sculacciate piace ancora alla setta di 90.000 anziani iscritti che elegge il leader del partito conservatore. Anche quando il ragazzetto ha più di cinquant’anni. Va’ a capire. La scadenza del 31 ottobre 2019 (prima era 31 marzo 2019) si avvicina e viene chiamata un cliff edge, un precipizio, dal quale lanciarsi

Le pretese di molti Brexiteers, siccome non avevano alcun rapporto con la realtà della trattativa, vennero chiamate unicorns: unicorni, animali di pura fantasia.

Nonostante anni di trattativa, i politici inglesi non hanno capito (o fanno finta di non aver capito) nulla della UE e delle sue esigenze. Ciò che capiscono ormai anche i bambini (ma che sfugge ancora a quei geni della Brexit) è che se uno lascia una società qualsiasi, anche la Pro Loco di un paesino della Bassa padana (con rispetto parlando), non può ottenere condizioni migliori rispetto a quelle che aveva quando era socio. Altrimenti, chi vorrebbe mai rimanere socio? Inoltre, le figure principali delle istituzioni europee sono rimaste non solo perplesse di fronte voto favorevole all’uscita, ma anche impaurite. E se fosse veramente l’inizio della fine dell’UE, come auspica Nigel Farage? Di conseguenza, dopo il risultato del referendum (e qui forse incide pure la débâcle della Grecia) (10) l’Unione Europea non poteva fare altro che difendere a spada tratta i propri principi – le cosiddette quattro libertà fondamentali (11) – e l’unità delle proprie istituzioni: di fatto non ha permesso agli inglesi di avviare alcuna trattativa al di fuori di quella unica con Barnier. Nessuna crepa nel muro, unità totale.

Nel gergo della Brexit WA significa Withdrawal Agreement, il fatidico e faticoso accordo raggiunto con la UE nell’autunno del 2018 che Theresa May ha cercato di far approvare per ben tre volte senza successo, prendendosi pure il primato della sconfitta più pesante mai incassata da un governo inglese, prima di arrendersi all’inevitabile e dimettersi dopo l’ennesimo sabotaggio da parte dell’ala più intransigente del proprio partito. L’accordo proposto stabilisce solo i termini del “divorzio” e in realtà dice poche cose concrete, di cui alcune però sono diventate molto controverse in Gran Bretagna: in particolare, stabilisce una cifra che la GB deve versare (per accordi già presi, per le pensioni dei propri dipendenti, ecc.) e propone il cosiddetto backstop, di cui sotto.

Attenzione, ciò che propone il WA non è l’accordo con la UE, è solo il preludio all’accordo! Definisce i parametri per la trattativa che seguirà durante un periodo di transizione, fino all’uscita vera della Gran Bretagna, prevista per due anni dopo la firma del WA. Ciò che non dicono mai apertamente i fautori di no-deal è che uscire senza accordo, minacciando di non pagare la cifra concordata nel WA, non cambierà un tubo. Anche se la Gran Bretagna esce senza un accordo, il giorno dopo i suoi prestigiosi negoziatori e diplomatici (quelli che non sono già scappati per coltivare patate nel Devonshire) dovranno tornare a Bruxelles per fare esattamente la stessa trattativa prevista dal WA, ma cominciando da una posizione immensamente più debole.

Per inciso, il WA dice pure qualcosa di generico sulla situazione per i cittadini europei residenti in Gran Bretagna e i britannici residenti in altri stati della Unione Europea, un argomento che è stato affrontato dal governo britannico con una sorta di indifferenza totale condita con un pizzico di ostilità (soprattutto verso noi che abbiamo “tradito” la Patria andando a vivere presso il “nemico”). La sensazione è che noi, persone fisiche che più rappresentiamo il sogno europeo (infranto), siamo una specie di merce di scambio nella trattativa. Alla pari dei diritti reciproci di pesca nelle acque della Manica, tanto per dirne una.

Fine Prima Parte

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News » DIBATTITI E OPINIONI - Sede: Nazionale | sabato 28 settembre 2019