21 gennaio 1943, ore 10.15: Tripoli, addio...!30/12/2021

Memoria per 21 gennaio 1943, ore 10.15: Tripoli, addio...!

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21 gennaio 1943, ore 10.15: Tripoli, addio...!30/12/2021

Sono circa le 4 di pomeriggio di martedì 19 gennaio 1943 quando, tra l’arsura e le dune sabbiose libiche, un ricognitore dell'Afrika-Korps germanico avvisa una colonna motorizzata nemica a sud dell’ala destra dello schieramento italo-tedesco. E’ da 2 mesi e mezzo, da quando a fine ottobre 1942 ad El Alamein si erano infrante le speranze per l’Asse di arrivare ad Alessandria d’Egitto e al canale di Suez (chiudendo verosimilmente la partita in tutta l'Africa settentrionale), che italiani e tedeschi ripiegano di fronte all’avanzata anglo-americana. Un ripiegamento lento e costante, lungo 2.000 chilometri, quasi sempre ordinato e senza troppi rischi, ma pur sempre di ripiegamento si è trattato.

I bollettini di guerra italiani parlano un giorno sì e l’altro pure di “attuazione di previsti movimenti”. Quali siano, nessuno lo sa. Si sa però, per esperienza, che da un movimento “previsto”, ossia già calcolato, non c’è da temere, ma si sa pure che è un movimento all’indietro. Il bollettino del 19 gennaio, però (n.971) è un allarme che tutti comprendono nella sua reale gravità. Erwin Rommel, comandante di tutto lo schieramento italo-tedesco, corre sul posto dell’avvistamento del nemico e subito, temendo di restare imbottigliato dalla manovra di aggiramento anglo-americana, ordina il ripiegamento generale di tutto ciò che resta della sua armata. Siamo ormai sul margine del campo trincerato di Tripoli. Quel bollettino è dunque il sinistro segnale dell’abbandono della colonia e del ripiegamento generale in Tunisia.

A parte l’aspetto prettamente militare (che riguarda anche guarnigioni italo-tedesche sparse qua e là nel deserto a presidio dei pozzi d’acqua, e che a distanza di centinaia di chilometri dalla costa è praticamente impossibile richiamare o portar loro rinforzi), l’abbandono di Tripoli comporta per gli italiani anche un grosso problema sentimentale. Si legge nel volume militare “Da El Alamein a Tunisi” di Maioli-Caroli, Ed.Melita 1988: “Non si lascia, senza sentirsi stringere il cuore, una colonia sulla quale gli uomini hanno profuso tutto il loro sudore e tutta la loro anima. Il dramma è dei coloni. Essere costretti a lasciare tutti quei villaggi, quelle casette bianche e ben curate, quei giardini, è uno spettacolo penoso. Il lavoro di anni, cancellato tutt’a un tratto. Quanto sudore! Quante speranze su quei rettangoli di terra strappata al deserto, innaffiata e concimata dal sudore dei contadini siciliani e veneti…! Visti dall’aereo, i villaggi sono ancora graziosi, ma visti da vicino sono una pena. Buona parte dell’intonaco degli edifici è caduto, i negozi sono vuoti, l’osteria non è più che un vivaio di mosche…”. Di tante migliaia di coloni a cui è stato chiesto se preferiscono seguire il ripiegamento dell’armata, abbandonando tutto, o meno, solo in pochi scelgono di restare.

Giorno 20 circolano in città le voci più disparate, ma quelle più confortanti (nuovi rinforzi militari in arrivo via mare e possibili controffensive di Rommel) si sgonfiano presto. Con lo smantellamento di quanto di militarmente ancora valido e trasportabile dal campo trincerato, Tripoli è potenzialmente già aperta al nemico. “Ma se proprio dev’essere consegnata agli inglesi – pensano non pochi civili, italiani e arabi, “tanto vale saccheggiarla noi prima”.  I magazzini sono così presi d’assalto e invasi, da quelli alimentari a quelli di medicinali: zucchero, caffè, bende, ferri chirurgici, macchine da scrivere, mensole, pillole, lampade, sedie, olio, birra… tutti s’affannano a portar via il più possibile. Ma non è una festa. Qualcuno piange. Si salvano solo casse con scritte in tedesco che nessuno capisce: sono scatolette di carne, ma nella confusione generale si pensa possa essere esplosivo ed è meglio non toccarle, non si sa mai. Spunta qua e là qualche militare che a fatica ristabilisce per un po' un minimo d’ordine, salvo mischiarsi poi anche lui tra i saccheggiatori. Qualche arabo più furbo dehli altri fiuta già di rivendere poi agli inglesi il bottino appena accaparratosi.

Il pro-zio di chi scrive, maresciallo della Marina di stanza da prima dell’inizio della guerra al Centro-Radio Ricevente della Busetta (Abu-Sittah, quartiere della periferia orientale della città, fra i palmeti di Sciara Sciatt e del galoppatoio) lascia Tripoli con le lacrime agli occhi alle 10.15 di giovedì 21 gennaio. Il suo presidio ha avuto disposizione, quando le truppe Alleate provenienti dall’Egitto fossero arrivate nelle vicinanze, di dare l’ultimo segnale di evacuazione della base, distruggere gli apparecchi radio, bruciare i documenti e ripiegare in Tunisia, possibilmente aggregandosi ad altri contingenti italiani o tedeschi. Un ultimo sguardo a quella casermetta, ai suoi archi, al suo giardino e al suo orticello curati per anni ogni giorno e dove qualche indigeno lasciava pure, quando si poteva, i suoi bambini a giocare. Un ultimo saluto al pennone, sotto cui avvenivano le adunate e dove la domenica si celebrava la S.Messa, alle palme, alla staccionata bianca dell’ippodromo dietro la casermetta e al breve vialetto d’ingresso, da dove arrivavano e partivano soldati da e per la prima linea (“Quando arrivava l’ordine di mandare 2 autisti o un marinaio al fronte – mi raccontava mio zio - il capoposto chiedeva a me. Io non avevo simpatie o antipatie, anche perché si trattava di vita o di morte. Dicevo loro: “Ragazzi, se fate il vostro dovere, io cerco di lasciarvi qua…”. Ci levavamo i lavativi, non certo chi faceva il suo dovere… Di palermitani, poi, ce n’erano un sacco. E io dicevo loro: “Guardate che voi sarete i primi ad essere chiamati da me per lavorare, perché non voglio che nessuno mi accusi di favorire i miei concittadini…”). Non ricordo di avergli mai chiesto, invece, della scena , che fu certamente sbrigativa ma sempre molto significativa, dell'ammainabandiera. Verosimilmente, sarà stato mezzora/un'ora prima del congedo dalla caserma, quindi 09.00/09.30. Mi disse però che il tricolore lo tenne un marinaio, anch'esso palermitano, un certo Giacalone se non ricordo male, ma se poi lo consegnò a qualche superiore o riuscì a portarlo lui stesso in Italia, non è dato sapere.

Da suo diario, tuttavia, il convoglio muove, come detto, alle 10.15. Sono 5/6 camion, altrettante auto e un piccolo blindato con 2/3 tedeschi di chissà quale presidio lì vicino e che, giunti in città, prenderà altre strade. Con gli italiani c’è Lola, la cagnetta-mascotte del Centro Radio. L'ultima cosa che caricano a bordo sono 2/3 cassette di frutta che qualche indigeno ha pensato di portare loro per il viaggio. La commoziome contagia tutti, anche i locali: sono stati bene con gli italiani, adesso per loro il futuro è un'incognita. Per uscire da Tripoli lato Tunisia c’è da attraversare la città. Altra passerella penosa e malinconica: corso Italia, corso Sicilia, il lungomare coi suoi palmeti, il palazzo del governatore Balbo (l'uomo che ha fatto convivere pacificamente musulmani, ebrei e cattolici)... E poi la Cattedrale, il Castello, i palazzi del centro ... cosa resterà di tanta italianità in una città da adesso non più italiana? Visi tirati, qualcuno ha gli occhi lucidi, voglia di parlare nessuna.

Nel pomeriggio il convoglio, per brevi tratti occasionalmente aggregatosi ad altri sempre in ripiegamento, viene mitragliato a bassa quota da aerei inglesi. Alcuni spezzoni incendiari vanno a segno e qualcuno ci lascia la pelle. Nello scaraventarsi giù dai mezzi e gettarsi a terra sui cigli della strada, a mio zio entra sabbia dentro l’orologio. Me lo regalerà negli anni ’80, con le lancette che ancora segnano le 15.41, ora in cui si buttò a terra in uno degli attacchi aerei di quel 21 gennaio pomeriggio. In nottata entrano in Tunisia. “Il commiato con la Colonia è triste. – si legge ancora nel testo di Maioli-Caroli - Avviene là dove la “Balbia”, l’asfaltata imperiale, finisce, e comincia il deserto. Due carabinieri indicano la direzione. Si sarebbero poi consegnati agli inglesi. “Salutateci l’Italia” dicono “e buona fortuna!””.  

Il giorno dopo, venerdì 22, la colonna arriva a Sfax, da dove rientrerà poi in Sicilia a febbraio, via Tunisi. Quella stessa sera del 22, verso le ore 19, Tripoli è evacuata anche dalle ultime colonne italo-tedesche lasciate a coprire la ritirata. Il giorno dopo, sabato 23 gennaio, le prime avanguardie inglesi entrano in città. Dopo mesi di combattimenti, di afa insopportabile e di deserto, Tripoli coi suoi lunghi viali, la frescura dei suoi alberi e la sua birra è per loro il più desiderato dei premi.

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