Il 25 aprile: la data che ancora divide25/4/2021

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Il 25 aprile: la data che ancora divide25/4/2021

di Giovanni Curatola

Il direttore del “Giornale del ricordo” mi chiede qualche riga sul 25 aprile. E’ doppiamente astuto: intanto perché sa bene come la penso in merito, poi, soprattutto, perché sa che a lui non posso dire no. Per motivi affettivi, s’intende, non certo gerarchici.

Proviamo allora ad accontentarlo (almeno in parte, perché la soddisfazione di scendere sul terreno della polemica ho deciso quest'anno di non dargliela), e benché l’argomento più che un articolo meriterebbe un libro, se non altro per i suoi risvolti sociali e morali, oltre quelli prettamente politici e storici.

Allora, da cosa cominciamo? Dal fatto che in Italia, in questo giorno, si celebra la ritrovata libertà dall’oppressore nazi-fascista? No: i concetti di libertà e di oppressione sono troppo opinabili per venire appiattiti e usati da un lato solo, come il mito resistenziale, edificato a tavolino a cose fatte, pretende. Sarebbe politicamente corretto, certo, rispecchierebbe la Storia per come si è voluta sia andata, ma si scivolerebbe in un conformismo troppo banale per essere lodevole di qualche riga.

Potremmo allora iniziare dal suo opposto, ossia dalla tesi che il 25 aprile è, per i vinti, il giorno in cui i vigliacchi si proclamano eroi, il trionfo dell’Italia voltagabbana e opportunista su quella forse ingenua, ma rimasta fedele alla parola data, che per un più o meno condivisibile senso di dignità e onore ha preferito concludere la guerra si perdendola, ma sulla stessa barricata in cui l’aveva cominciata.

E’ convinzione dai tempi dei romani che “in medio stat virtus”. Non necessariamente, penso, rispecchi la realtà. Almeno in questo caso. Ma tra i due estremi, decido di rinunciare alla tentazione di decantarne uno e minimizzare l’altro. Alla stessa maniera, rinuncio alla scorciatoia che furbescamente si inventò Gianfranco Chiti, reduce della RSI, quando nel dopoguerra fu obbligato a parlar bene del 25 aprile e se ne uscì elogiando Guglielmo Marconi, che proprio in quel giorno (ma del 1874) venne al mondo.

Mi limito invece solo qualche precisazione, magari ovvia ma "neutra", e passo, per il resto, la palla a Renzo De Felice, uno dei massimi storici del periodo qui d’interesse. Da qualunque parte la si veda, è incontrovertibile che l’antitesi fascismo-antifascismo quale costante dei 20 mesi della guerra civile 1943-45 sia una semplificazione tanto estrema e riduttiva da divenire totalmente fuorviante. Sia la Repubblica Sociale che il fronte partigiano, infatti, non hanno mai costituito blocchi omogenei e dai confini ben definiti, ma un insieme assai labile nei numeri (a seconda delle circostanze). Un insieme diversificato e spesso confuso e contraddittorio di correnti al proprio interno con idee, scopi e interessi divergenti. E che portarono a rese dei conti interne spietate (il comandante Borghese della X° Mas fu imprigionato dai militi fascisti, i partigiani “rossi” fecero fuori loro “colleghi” non comunisti quasi quanti camerati della parte avversa). Nella Repubblica Sociale convivevano fascisti nostalgici del vecchio regime e nuovi fascisti attratti dall’indirizzo sinistroide e socializzante del Mussolini di Salò. Squadristi violenti e fanatici erano a fianco di fascisti moderati e onestissimi, così come avanzi di galera e gente spinta dalla brama di vendetta si trovò arruolata insieme ad altri spinti dall’emotività sincera e pulita di reazione alla vergogna dell’8 settembre. Fascisti di desta, più anticomunisti che anti-americani, e fascisti di sinistra, che non nel comunismo ma nella borghesia e nel capitalismo vedevano il loro principale nemico.

Dall’altro lato, c’era la componente maggioritaria e più organizzata della Resistenza (quella comunista) che non puntava al semplice abbattimento del nazi-fascismo per amore di libertà e democrazia, ma per sostituirvi una ben più dura e sanguinaria dittatura, stile Mosca. Gli agguati, le imboscate e i vari attentati terroristici che senza reale motivazione spedirono al creatore migliaia di appartenenti alla RSI o alle forze armate germaniche durante la RSI, e la crudele e gratuita mattanza di sangue che dopo il 25 aprile si abbatté su decine di migliaia di fascisti o presunti tali ormai inermi, sono tutti di matrice rossa. Le cattoliche “Fiamme verdi” ed altre formazioni partigiane non comuniste, assai più moderate e meno inclini a simili crudeltà e vigliaccherie, restano nell’immaginario collettivo o escluse dal mito resistenziale o ridotte a trascurabilissimo margine. Eppure ci furono, e la loro presenza seppur minoritaria nobilitò per certi versi un movimento partigiano insozzato e insanguinato dai rossi. Oggi se dici Resistenza pensi solo ai fazzoletti rossi, alla falce al martello e al pugno chiuso, ma non fu solo quello. Così come il fascismo di Salò non va tutto confuso col fanatismo della sua componente più intransigente. Le Brigate Nere e la legione “Muti” sono una cosa, i Giovanni Gentile, i Giampietro Pellegrini e i Fernando Mezzasoma un’altra.  Mai confondere il tutto con una sua parte, perché se quel tutto lo si assolve, si rende merito anche a chi merito non ne ha alcuno, mentre se lo si condanna, si commette una grave ingiustizia. Nel caso specifico, nei confronti di tanta gente perbene che non ha mai ammazzato una mosca ma anzi predicava quell’affratellamento fra italiani che per ragioni opposte le componenti estreme sia del suo stesso movimento che quello avverso rifiutavano.

Quanto sopra per ribadire che mai tutto il male o tutto il bene stanno da una parte sola. Concetto banale ma che spesso viene calpestato. Così, quando il mio primogenito mi chiede, col candore dei suoi 10 anni, se gli ateniesi erano buoni e i persiani cattivi, così come gli indiani e i cow-boys o, per l'appunto, i fascisti e i partigiani, rispondo con un'altra domanda:  "Secondo te sono più cattivi i tifosi della Juventus o del Milan?  Lui capisce che ogni tifoseria non può etichettarsi solo in un modo, perché al suo interno c'è gente sia "buona" che "cattiva", e che semmai è solo una questione di percentuali, e solo su quelle si può emettere un giudizio. Applica dunque il ragionamento calcistico alla storia, e il gioco è fatto.

Qualche riga del volume “Rosso e Nero” di De Felice  conclude infine questo articolo, incentrato su una data che inevitabilmente continuerà a dividere gli italiani e la memoria più o meno confusa e fuorviata che ancora hanno di essa: “Tutto era cominciato male, nel 1940. La borghesia italiana che, volente o nolente, ormai aveva finito per identificarsi col fascismo, aveva visto di buon occhio la fine della “non belligeranza”, immaginando di dover combattere una guerra breve. Nel sentimento comune, dopo il crollo verticale della Francia, poche settimane di combattimenti sarebbero dovute bastare per sedere al tavolo della pace dalla parte dei vincitori… Ma quando la guerra da breve si fece lunga e fu subito dura, la guerra divenne una “guerra imposta”, in un clima politico-culturale all’italiana, più furbetto che cinico, un po’ opportunista… Il sentimento comune degli italiani, alla fine degli anni ‘30, era di totale fiducia per Mussolini… La partecipazione volontaria alla II guerra mondiale fu maggiore che nella Grande Guerra… Dopo le cocenti sconfitte in Africa e in Russia, anche il vertice fascista e lo stesso Mussolini si erano convinti che bisognasse trovare una via di uscita. Ma non era facile... Si comincia con gli sforzi per convincere Hitler a un accordo con Stalin, in modo da spostare tutto il baricentro della potenza tedesca sul Mediterraneo contro gli Alleati; si prosegue con la pretesa che i tedeschi accettino un’uscita unilaterale dalla guerra degli italiani; si finisce con l’assurda idea di un ribaltamento del fronte, con l’immediato passaggio dell’Italia a fianco degli Alleati. Con tutte le conseguenze che ancora scontiamo… Dopo aver corso l’avventura a fianco della Germania fino a quando il successo parve a portata di mano, si scoprirono antifascisti e antitedeschi alla venticinquesima ora… Senza la catastrofe, la classe dirigente italiana, la borghesia e financo i ceti popolari non avrebbero avuto né l’interesse né la forza di scrollarsi di dosso il fascismo…”

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