Calatafimi - Garibaldi conquista la Sicilia2/10/2020

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Calatafimi - Garibaldi conquista la Sicilia2/10/2020

di Giovanni Curatola

Le 4 ore della battaglia di Calatafimi (10.30-14.30 del 15 maggio 1860) sono passati alla storia come la prima, grande e per certi versi decisiva vittoria di Garibaldi contro l’esercito borbonico del Regno delle Due Sicilie, almeno per il morale dei Mille e per il presunto orientamento benevolo verso di essi del popolo siciliano. Celebrata sui quadri e sui libri di scuola come episodio cardine del mito risorgimentale, quella battaglia nei fatti non avrebbe mai dovuto aver luogo. Non la volevano i Mille, accolti con freddezza se non con ostilità già dal loro sbarco a Marsala da quella popolazione sicula che sarebbe subito insorta - almeno così fu loro fatto intendere - per far comunella con loro contro i Borbone. Non la voleva ovviamente Garibaldi, ben conscio che i suoi, a parte i carabinieri genovesi e pochi altri reparti professionisti dell’uso delle armi, erano in generale gente raccogliticcia, poco esperta di combattimenti. Non la volevano né gli equipaggi inglesi né i massoni (inglesi e italiani), veri artefici, dietro le quinte, di un piano ben studiato coi Savoia per garantire a Garibaldi il successo nel Regno delle Due Sicilie, e pronti a intervenire a qualunque livello a supporto dell’Eroe dei due Mondi qualora qualcosa fosse andato storto. Non la volevano neppure i militari più alti in grado dell’esercito borbonico, già corrotti dai Savoia con la promessa di arruolamento nel futuro esercito italiano con mantenimento o avanzamento di gradi e stipendi. Fu il caso, su tutti, di Ferdinando Lanza (che nonostante fosse a capo di 21.000 soldati borbonici a presidio di Palermo consegnerà di fatto la capitale sicula a Garibaldi) e di Francesco Landi, generale inviato ufficialmente da Lanza per fermare i Mille a Calatafimi ma in realtà per “farlo passare” in un modo però che salvasse però il più possibile faccia e apparenze. Esattamente ciò che avvenne a Calatafimi.

Giunta a Palermo notizia che i garibaldini, saliti da Marsala a Salemi, stavano avanzando di campagna in campagna verso la capitale dell’Isola, a Landi toccò l’ingrato compito ufficiale di fermarlo. Impiegare però tutti i 3.000 soldati borbonici a sua disposizione, addestrati, motivati e soprattutto ignari del tradimento del proprio capo, avrebbe significato l’annientamento certo e totale della spedizione garibaldina, sino a ributtarne a mare i superstiti. Landi non poteva permetterselo: aveva già in tasca il foglio con cui riscuotere per conto dei Savoia 14.000 ducati a cose fatte, nonché la garanzia di assunzione di 4 dei suoi 5 figli (tutti ufficiali dell’esercito borbonico) nel futuro esercito italiano. Cosa che avverrà puntualmente. Landi a Calatafimi prese e perse dunque volutamente tempo, tenendo fermi 2.400 dei suoi, con le scuse più disparate, alle porte del paese. Tuttavia, a fronteggiare Garibaldi non poteva permettersi di non mandare proprio nessuno, dunque optò per il male minore: inviare i 600 uomini dell’“8° battaglione Cacciatori” agli ordini del maggiore Michele Sforza, il reparto più stanco, meno numeroso e meno rifornito di munizioni. Essendo inoltre questo reparto tra il più fedele al re borbonico e tra i più motivati a dare una batosta ai garibaldini, il suo mancato impiego avrebbe significato per Landi un’ancor più difficile gestione del malcontento e un forte rischio d’insubordinazione. Che andassero Sforza e i suoi, dunque, incontro ai garibaldini… Ma solo per osservane le mosse e col preciso ordine di non far fuoco.

Raggiunta l’altura di “Pianto Romano”, 6 km a sud di Calatafimi, i 600 borbonici si schierarono così in attesa dei garibaldini in avvicinamento, mentre sulle alture circostanti - a riprova che l’arrivo di Garibaldi non provocò affatto nelle masse quella fiammata unanime e quell’insurrezione corale che ci si attendeva, e che sarà costruita a tavolino per dare legittimità alla sua impresa - contadini e curiosi si andavano ammassando per godersi lo spettacolo e poi inneggiare, indifferentemente, a Garibaldi o al re borbonico a seconda di come si sarebbero messe le cose. L’apporto mafioso stesso, garantitogli prima di salpare da Quarto, fu per tutta la campagna di Sicilia più politico che militare. Sui “picciòtti” delle bande messe a sua disposizione dai capimafia locali (Coppola e Sant’Anna), infatti, Garibaldi capì da subito di poter contare poco o nulla. Inaffidabili sia perché militarmente inesperti che perché refrattari a qualunque disciplina, molti di questi “picciòtti” si presentavano la mattina per poi sparire la sera, portandosi via scarpe, armi e quant’altro potevano dell’equipaggiamento garibaldino. Ecco perché Garibaldi decise da subito di non armarli, ma di servirsene solo per l’unico scopo che potevano conseguire: ingrossare le proprie fila per impressionare meglio il nemico. Amen. Furono piuttosto 22.000 soldati sabaudi (22 volte quelli sbarcati a Marsala!) che in 34 spedizioni sbarcarono in Sicilia tra fine maggio e metà luglio per dar man forte ai Mille originari.

Dai resoconti degli stessi Mille (Abba e Bandi su tutti) emerge che Garibaldi la mattina della battaglia di Calatafimi si svegliò cantando allegramente. Sapeva che l’esercito borbonico era ormai a poche miglia, e si era ormai rassegnato sull’inutilità dell’apporto delle bande di mafia (difatti a Calatafimi i “picciotti” schierati ai lati delle linee garibaldine non ebbero alcuna voglia di combattere, e si guardarono bene dal buttarsi nella mischia). Da cosa allora poteva dunque provenire quell’allegria di Garibaldi, se non dall’essere già al corrente del doppiogioco di Landi e del fatto che lo sbarramento di Calatafimi sarebbe stato in un modo o nell’altro superato, perché comunque si sarebbero messe le cose c’erano sempre inglesi, massoni e capimafia pronti a intervenire e a proteggerlo alle spalle?

Appena avvistato dai nemici, Garibaldi fece schierare i suoi a semicerchio. I 600 borbonici, da lassù, pur godendo di una posizione migliore avevano munizioni limitate ed erano in inferiorità numerica. Sforza, indeciso se rispettare l’ordine di Landi o dar fuoco alle polveri, si consultò coi suoi, e tutti all’unanimità scelsero di combattere. Così alle 10.30, dopo 2 squilli di tromba, lo scontro ebbe inizio. Per due volte i garibaldini provarono, senza riuscirci, a rompere il fuoco di sbarramento borbonico. A Garibaldi va tuttavia riconosciuto il merito di aver saputo limitare, davanti a questo doppio insuccesso, lo scompaginamento dei suoi. E in quelle circostanze (più in basso dei borbonici, e dunque più esposti al loro tiro) non fu cosa da poco. Tuttavia, in mancanza di alternative di ripiego, ai Mille non restava che tentare il tutto per tutto: un terzo ed ultimo tentativo di sfondamento, stavolta con le baionette. Era la soluzione più estrema e disperata, anche perché comportava un’impervia salita in altura sotto il fuoco del nemico, per poi affrontarlo lì in un mortale corpo a corpo. Sforza frattanto, rimasto con pochissime munizioni, mandò un corriere a Landi per chiedere rinforzi. Per chiudere definitivamente la partita in favore dei borbonici sarebbe bastata anche solo la metà dei 2.400 uomini tenuti volutamente fermi a Calatafimi, ma Landi si guardò bene dall’inviarli. Dovette domare a stento i tentativi d’insubordinazione di quanti dei suoi volevano correre in aiuto dei propri camerati in difficoltà, ma questi rimasero volutamente senza aiuti. Tuttavia, gli uomini di Sforza a “Pianto Romano” non mollarono, sopperendo anche con le pietre all’esaurirsi delle proprie munizioni. Da qualunque parte oggi la si veda, è doveroso riconoscerne e rispettarne il sacrificio. Il loro sbarramento tenne ancora, e i garibaldini pur arrivati al corpo a corpo non riuscirono a sfondare neanche stavolta. Nella gigantesca mischia, Garibaldi rimediò una sassata al volto e, cosa ancor peggiore, i garibaldini persero il loro stendardo: la bandiera tricolore. E ancora a quei tempi, un vessillo strappato al nemico sul campo di battaglia manteneva un effetto psicologico enorme: tanto devastante per chi la parte che lo perdeva, tanto galvanizzante per quella che l’aveva conquistato. Per la cronaca, il soldato borbonico che riuscì a strappare il tricolore al nemico si chiamava Angelo De Vito.

Davanti a questo terzo fallimento, col “le palle che fischiavano da tutti i lati” (Bandi) e temendo la controffensiva in cui i borbonici stavano già dando fondo alle loro ultime pallottole, Nino Bixio chiese trafelato a Garibaldi se non fosse il caso di ritirarsi. “Ma dove?” rispose il generale, conscio di non avere alcuna retrovia sicura alle spalle. “E allora che facciamo?” chiese impaurito il Sirtori. “Cosa ci resta, se non morire?” pare abbia risposto Garibaldi. La frase, poi imbellita per meglio adattarla alla mitologia resistenziale, diventerà: “Qui si fa l’Italia o si muore!”. All’improvviso, sul campo di battaglia risuonò la tromba della ritirata. Ma non era per le schiere garibaldine, convinte di essere in piena disfatta. Era quella fatta suonare da Landi per porre fine allo scontro, che i suoi stavano “rischiando” di vincere. Troppo pericoloso. Meglio smobilitare e tornare subito a Palermo, tanto più che trattenere fermi fuori Calatafimi i suoi che volevano raggiungere il campo di battaglia era ormai divenuto praticamente impossibile. Incredulità e stupore fra i Mille: “I napoletani fuggono!”, “Vittoria! Vittoria!”. Erano circa le 15.00. La notizia si sparse in un baleno in tutta la zona e i “picciòtti”, che fino ad allora erano rimasti prudentemente a guardare, capito ormai dove tira il vento si compiacquero coi vincitori ed entrarono in scena al loro fianco nell’quarto d’ora di battaglia. Gli atti di sciacallaggio sui nemici morti, feriti o comunque inermi si alterarono, quando non visti, a quelli compiuti sugli stessi garibaldini morti o gravemente feriti, derubati anch’essi di quanto più possibile. Compiuti i rituali di sciacallaggio e codardia tipici di ogni guerra, questi partigiani ante-litteram entrarono festosi in Calatafimi a fianco dei Mille qualche ora dopo, ancora con la luce del giorno ma solo dopo che Garibaldi ebbe certezza che in paese non fosse rimasto più un soldato borbonico.

Per gli sconfitti, l’incidente di Calatafimi non pregiudicò affatto l’esito della campagna anti-garibaldina, e sarebbe stato ampiamente recuperabile se al tradimento di Landi non fosse seguito quello ancor più grande (nei numeri e nell’importanza) di Lanza a Palermo. Ai Mille, trovatisi inaspettatamente vincitori dopo aver subìto quasi incessantemente l’iniziativa nemica, quel successo “taroccato” giovò in termini d’immagine ben oltre i numeri che comportò (un centinaio di caduti da ambo le parti dicono le fonti risorgimentali, in realtà qualche decina meno).

Aver qui evidenziato come e perché, quel 15 maggio 1860 presso Calatafimi, le cose presero una determinata piega, non equivale tuttavia a rinvangare nostalgie borboniche che non ci appartengono, né a smitizzare la figura di quell’ottimo stratega che fu Garibaldi, risucchiato per quell’impresa unitaria in un progetto più grande di lui e pianificato a tavolino da Vittorio Emanuele II e Cavour. Progetto a cui necessitava un grosso nome spendibile sul piano militare (e che fu trovato in Garibaldi) e su cui, tolta una pur consistente aliquota di autentici e valorosi patrioti, si trovarono a convergere interessi della massoneria internazionale, del governo inglese e della mafia locale. Che l’Italia andasse unita era in fondo auspicabile anche nel Meridione, dove il Regno delle Due Sicilie non era certo quel paese di Bengodi che certi nostalgici filo-borbonici ancora decantano. Non è l’ideale unitario a dover andare pertanto sotto esame, semmai talune modalità con cui tale unità avvenne. E Calatafimi fu tra queste.

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