"Marco Massa", il disco che racconta un uomo intero

26 novembre 2025

Il coraggio di chiamarsi per nome

Ci sono artisti che inseguono un suono, artisti che inseguono un’idea e artisti che, a un certo punto, inseguono se stessi. Marco Massa appartiene a quest’ultima specie rara: quella che arriva al centro solo dopo aver esplorato tutte le periferie dell’anima.

Il nuovo disco Marco Massa, un doppio LP in bianco e nero distribuito da Virgin Music Italia, non è un semplice album: è un autoritratto che respira. Un gesto che pochi osano. Dare il proprio nome a un disco significa esporsi, smettere di nascondersi dietro le canzoni e permettere alle canzoni di raccontarti davvero.

Questo album si apre come una finestra lunga una vita. Dentro c’è Milano con i suoi chiaroscuri, c’è il Sud che Massa porta come un’eco in fondo alla voce, c’è la sua ricerca mai quieta e soprattutto c’è un uomo che non tenta più di essere altro da ciò che è.

Marco, intitolare un disco col proprio nome è quasi come guardarsi negli occhi allo specchio. Che gesto è stato per te?

«Un gesto di verità. Questo album è nato come una fotografia: non un’immagine posata, ma una di quelle foto che ti sorprendono mentre non fai finta di nulla. Il doppio LP in bianco e nero è il modo più sincero che avevo per mostrarmi. Il vinile nero cerca, sperimenta, si allontana. Il bianco invece avvicina, respira, tocca la pelle. Sono due versioni mie che finalmente dialogano.»

Il lato bianco sembra quasi un salotto intimo: pochi strumenti, molto respiro, tanta verità. È davvero il tuo volto più autentico?

«Sì. È la parte che mi rappresenta meglio. Con Marco Montanari abbiamo lavorato in modo quasi domestico: niente sovrastrutture, solo strumenti suonati come si faceva una volta, con il silenzio che diventa un pezzo della canzone. In quei brani io sento le mie estati al Sud, i profumi dell’infanzia, la gentilezza delle prime musiche che ho ascoltato. Anche se sono nato a Milano, le mie radici sonore sono lì.»

E poi c’è il vinile nero, che invece ha un respiro nordico, quasi cinematografico. Da dove arriva quella luce fredda?

«Dal Nord Europa, proprio così. Volevo paesaggi lontani, notti lunghe, suoni che si aprono lentamente. Questo lato è stato guidato molto da Marco Grasso e dalla mia grande passione per il clarinetto di mio figlio Francesco. Suonare insieme a lui ha dato a tutto un sentimento di intimità particolare: eravamo padre e figlio, ma anche due musicisti che si ascoltano davvero. E poi ho suonato tanto la tromba: cercavo me stesso lì dentro.»

Due anime opposte, due emisferi. Eppure il disco non perde unità. Qual è la cucitura invisibile?

«Il dialogo. Questo disco è una conversazione tra due me: quello che ha camminato fin qui e quello che sta andando avanti.»

Nel tuo immaginario Milano è sempre un personaggio. Che Milano attraversa questo disco?

«Una Milano bellissima e ferita. Una città che amo infinitamente e che continua a sorprendermi, ma che negli ultimi anni ha creato un divario sociale durissimo. È cambiata in fretta, forse troppo. La Milano che ho conosciuto era solidale, seria, collettiva. Oggi rischiamo di perdere quella dignità condivisa. Io però continuo a parlarle, come si fa con una persona cara che ha preso una strada difficile.»

Sei sempre stato un osservatore attento, quasi uno “scultore” del quotidiano. Da dove nascono le tue canzoni?

«Dall’urgenza di capire. Io guardo le persone, ascolto le frasi che dicono senza rendersene conto, mi interrogo sulle crepe. Non mi sono mai definito jazzista, anche se il jazz mi accompagna. Io cerco. Sempre. Una canzone nasce così: un’immagine, un gesto, un dettaglio… e qualcosa inizia a pulsare.»

Dal vivo però tutto cambia: hai una libertà interpretativa quasi teatrale. È difficile cantare una canzone sempre diversa?

«Per me è l’unico modo possibile. Una canzone è un essere vivente, cambia con te. Cara Milano ha decine di versioni… e ognuna dice una verità diversa. Se la ripeto identica, mente. E io non voglio mentire. Mai.»

La tua voce è uno strumento unico, subito riconoscibile. Quando hai capito che sarebbe diventata il tuo centro?

«Tardi, stranamente. All’inizio non la consideravo uno strumento. Poi ho capito che è LO strumento: la voce sei tu, la tua storia, il tuo fiato, persino le tue ferite. È difficilissima, imprevedibile. Studiare la voce significa studiare te stesso ogni giorno.»

Che cosa vorresti rimanesse addosso a chi ascolta Marco Massa? Una sola cosa, una sola vibrazione.

«Vorrei che rimanessero le verità multiple. Non una sola, ma tutte quelle che convivono nelle persone. Questo disco è fatto di verità che non litigano tra loro. Vorrei che fosse così anche per chi lo ascolta.»

di Giorgia Pellegrini

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