"Da ora in poi" di Catia Proietti: Come rosso malpelo
10 marzo 2019
di Catia Proietti
LEZIONE 3
COME ROSSO MALPELO
1.
“21 settembre 2011” scrive sulla lavagna la prof d’italiano, Nadia Nobile, con una faccia livida che tutti si guardano intorno con aria interrogativa. Si siede alla cattedra e scruta i suoi alunni in silenzio, mentre un sommesso mormorio si diffonde nell’aula.
«Ma che c’ha?» bisbiglia Enrico a Claudio. Sono vicini di banco dal primo giorno di scuola, si sono scelti senza dirsi nulla, semplicemente perché nessuno dei due aveva qualcu- no con cui stare. Enrico è un ragazzino ripetente, cresciuto più in fretta degli altri e quando si siede le gambe sono tanto lunghe che con le ginocchia alza il banco. Lui e Claudio non si cercano mai fuori scuola. Le loro solitudini si fanno com- pagnia nel banco.
«C’era la pula in giro oggi» risponde Claudio.
«Hanno beccato qualcuno» afferma Enrico con un guizzo sadico nello sguardo. Claudio non dice altro, considera tra sé che non ha visto cani poliziotto in giro e neanche elicot- teri, come accade quando fanno le retate e si portano via un sacco di gente. Dev’essere successo qualcos’altro. Due pante- re della polizia erano ferme lungo la strada e non sembrava stessero cercando qualcosa.
Claudio nota che la prof non ha trucco sul volto. Non che lei si colori in modo eccessivo come fa quella strampa- lata della prof di educazione artistica, che quando entra in classe sembra un albero di Natale acceso. La prof d’italiano si trucca in modo discreto con un filo di rossetto sulle lab- bra e una riga di matita nera sulle palpebre. Che però oggi non ha. A Claudio piace, è una a cui non interessa il giudizio degli altri, una che va controcorrente, l’unica donna che non si vergogni di mostrarsi con i capelli corti e bianchi.
Però oggi la prof è strana davvero. Inquieta. Posa gli oc- chiali sulla cattedra, poi li rimette, poi li toglie di nuovo e guarda i ragazzi strizzando gli occhi miopi. Quando si decide a parlare lo fa tutto d’un fiato e si sente che preferi- rebbe continuare a stare nel silenzio.
«Hanno investito e quasi ucciso un uomo questa notte. Ora è all’ospedale. Nessuno sa se ce la farà. Un brav’uomo. Una persona che è stata sempre presente nelle attività del nostro quartiere. Forse lo conoscete pure voi, si chiama Ennio.»Sabrina Amedeo, tre fidanzati alle spalle, salta sulla sedia: «Ma che davvero professore’? Mi’ nonno abita al lotto suo! Hanno pure ripulito il giardino insieme quest’estate!»
«Che vuol di’ che l’hanno quasi ammazzato?» chiede Enrico, mentre Claudio aderisce alla parete dietro di lui e tocca lo skateboard ad accertarsi che quella parte di sé ci sia sempre.
«Degli scippatori hanno rubato la borsa a sua moglie, sembra che lui abbia reagito gridandogli dietro qualcosa, quelli hanno fatto marcia indietro con la macchina e l’hanno investito.»
«Io gliela lasciavo la borsa a quelli! Ma chi se ne importa del portafoglio!» sentenzia Sabrina con l’approvazione di Valentina, sua compagna di banco nonché amica del cuore dalla prima elementare.
«Ci sono momenti in cui si agisce d’istinto, Sabrina. Cre- do sia quello che ha fatto il signor Ennio.» «Ma che, l’hanno arrestati quelli che so’ stati?» chiede Gianni Esposito da un banco della seconda fila, i capelli rasati a disegnare saette vicino alle tempie.
«Li stanno cercando. Sanno chi è stato, quindi se vedete un po’ d’agitazione in giro per il quartiere sape- te cosa è successo. Vedrete che ne parleranno anche al telegiornale». Matteo Di Giacomo scatta in piedi e si lancia in un discorso appassionato. «E certo! Se c’è scappato il morto si parla di San Basilio! E quando Loro ne parlano» sottolinea il pronome con l’indice in alto «sembra che ‘namo tutti a ruba’ e spaccia’! Mica li vedono quelli come mi’ madre e mi’ padre che la mattina si alzano presto per andare a lavora’, mica lo vedono Gianni che tira fori i soldi dalle tasche sue pel campo di calcio o quelli dell’associazione che per fa’ balla’ due vecchietti d’estate passano un anno a raccoglie fondi o quelli come Ennio e il nonno di Sabrina che scendono in cortile e ripuliscono tutto senza chiede un euro a nessuno». I compagni approvano. In breve tutti vo- gliono raccontare un episodio in cui un genitore, un fratello, un amico o un parente si è dato da fare per il quartiere. Chiara Paparelli dice che sua madre la manda tutti i giorni a prendere latte e pane per la vicina dell’ultimo piano, che per quanto è vecchia non riesce più a scendere le scale e Sabrina giura di aver promesso a suo nonno di aiutarlo a falciare l’erba.
Nadia Nobile li guarda con premura. Quei suoi ragazzi di periferia con il loro bisogno di giustificarsi, di sentirsi migliori di come vengono descritti. A volte li sospenderebbe in massa dalle lezioni perché rispondono, si ribellano, pronti a puntarti il dito addosso se sbagli qualcosa, altre invece li salverebbe tutti. Caricandoseli sulle spalle uno per uno. Perché il suo terrore è questo. Che possano inciampare. Per sbaglio o per leggerezza. E perdersi per sempre. Così Nadia non ha mai chiesto il trasferimento di sede. Più felice quando è con i ragazzi che nella sala dei professori, non le interessano le questioni tra adulti, i flirt vicino alla macchinetta del caffè, gli antagonismi per mettersi in luce davanti alla preside. Negli anni ha scoperto il piacere di ascoltare in silenzio i suoi ragazzi. Dicono cose interessanti, se si è capaci di sintonizzarsi sui loro canali.
Matteo ora siede soddisfatto. Ha detto la sua e i compagni lo hanno apprezzato. Lei gli sorride e lui rincuorato parte con la sua domanda. «A professore’ ma secondo lei, al mondo, sono più le persone buone o quelle cattive? Se uno ascolta i telegiornali quelli cattivi sono proprio tanti!» Nadia lo guarda, la peluria scura sulle labbra che an- nuncia i baffi, curiosi come la voce che cambia continua- mente tonalità e che a volte la costringe ad alzare di scatto la testa convinta che un adulto sia entrato in aula. Matteo è un ragazzo intelligente, a tredici anni s’interroga sul si- gnificato della vita, sulla prima pagina del diario ha scritto in bella calligrafia “Se la vita è sventura, perché da noi si dura?” La citazione leopardiana gli era valsa un “checca” da un ragazzo della terza B e un’ovazione generale da par- te dei compagni quando lo aveva appiccicato al muro per riprendersi il diario. Il pregiudizio popolare vorrebbe Matteo in un istituto professionale, ma Nadia gli consiglierà un liceo. Classico se possibile, perché ha una bella testa.
Così ora, quel Matteo Di Giacomo che tra pochi mesi siederà terrorizzato davanti a un professore del liceo, le rivolge quella domanda complicata. Anzi, l’aggettivo giu- sto sarebbe tormentata. Esistono più uomini buoni o cattivi nel mondo? Nadia fa un lungo sospiro pensandoci. C’è consistenza dietro quella domanda, la risposta merita attenzione.
Il solito brusio di chiacchiere in sottofondo cessa d’improvviso. La classe attende silenziosa con il suo peso di speranze.
«Sono più i buoni» afferma infine con convinzione. «Al mondo esistono più persone che creano, confronto a quelle che distruggono. Altrimenti non saremmo qui, non trova- te? Solo che noi, perché io mi considero tra i buoni, non facciamo rumore quando ci muoviamo. Siamo silenziosi. Invece i cattivi fanno un baccano terribile! Di loro parlano tutti, giornali, televisioni, cinema, per questo sembrano di più.»
Nessuno aveva chiesto cosa significasse quella frase.
Non ce n’era bisogno.
Conoscevano bene i rumori di cui parlava. Gli elicotteri di notte sulle teste. I cani lupo ad abbaiare per le scale.
I passi veloci dei poliziotti e il fischio dei pali ad avvisare che qualcuno passava dove non doveva.
Il clamore dei giornalisti nelle televisioni locali e la gente al
mercato a parlarne per giorni.
La classe compatta continua a tacere. Si sente solo il suo- no della ruota dello skateboard che Claudio fa girare quando si annoia o è nervoso.
Nadia è sicura che ora non si stia annoiando.
«Prendete l’antologia a pagina duecentocinquanta» dice pensando di cavalcare l’intensità del momento.
Matteo sfoglia il libro aggrottando le sopracciglia. «Prof, ha sbagliato pagina. Qui siamo a Verga, mentre noi dobbia- mo finire Leopardi». «Non ho sbagliato pagina. Voglio che oggi leggiate la novella Rosso Malpelo e voglio che stiate con le orecchie ben aperte perché questa storia vi riguarda direttamente. E quando dico “voglio” uso un imperativo, quindi Bianchetti leggi con voce chiara e decisa e voi state attenti». Appena chiamata in causa, Gioia Bianchetti si schiarisce la gola e addrizza le spalle. Per giocare a palla- volo durante la ricreazione nessuno la sceglie mai, ma se si tratta di leggere è la migliore. In un gesto abituale porta l’indice a sollevare la montatura degli occhiali che le pesa sul naso e poi inizia.
«Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo…»
La ruota dello skateboard smette di girare.
2.
Se fai skateboard la città è la tua palestra.
Non c’è muretto, panchina, gradinata, corrimano che tu abbia visto e non abbia desiderato far tuo.
Claudio va pazzo per lo spot di fronte alla metropolita- na di Rebibbia, lì dov’è il capolinea degli autobus, snodo di gente che arriva e che parte, ognuno con il suo fardello di vita addosso.
Giovanni Coscia, uno che viene da fuori e che al Bun- ker si affaccia giusto due o tre volte all’anno, dice che fare skateboard è come stare con una donna. Quando un trick gli riesce fa saettare la lingua sulle labbra e se ha saltato una scalinata grida «Me la sono fatta tutta!» alludendo ad altro.
Claudio, quando lo sente parlare così, ride. Saverio invece si arrabbia, minaccia di cacciarlo fuori dal parco e qualche volta è capitato di vederli spintonarsi.
A Claudio non sono mai piaciuti i modi da sbruffone di Giovanni, però comprende quel desiderio di dominio che lo agita quando vede una scalinata di venti gradini e un lungo e liscio corrimano della metropolitana. Non importa che ci sia qualcuno a guardarlo, quella è una sfida, una frenesia da cui si lascia prendere per dimostrare a se stesso che ce la farà! Cazzo se ce la farà!
Quando suo padre gli ordina di fare una consegna nel- la metropolitana, pensa a quel corrimano. Non appena lo vede ci scivola sopra con i truck chiudendo un Grind e provando subito dopo un Tail Slide da urlo, lo skateboard a poggiare sul ferro con la parte posteriore.
Il mammuth di Zerocalcare con le sue lunghe zanne lo sorveglia alle spalle. È un grosso murales di cui sa ripetere a memoria la scritta: “Rebibbia: fettuccia di paradiso, stret- ta tra la Tiburtina e la Nomentana, terra di mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”.
Per Claudio, Zerocalcare è uno grosso. Ha pure ragione su questa storia del “ce manca tutto, non ce serve nien- te” perché dalle parti loro così si ragiona. È sulla fettuccia di paradiso che ha qualche dubbio, però sullo skateboard non ci pensa. Neanche oggi che ha una consegna nuova.
La gente che entra ed esce dalla metropolitana rallenta la sua frenetica corsa contro il tempo per ammirarlo, lui se ne accorge e si pavoneggia. Un ragazzo urla e fischia inci- tandolo, una donna gli grida dietro «Guarda che t’ammazzi!» Claudio carica a terra, prende velocità e salta in Nol- lie, aiutando con il piede posteriore la posizione verticale della tavola. Una bambina tira la mano di sua madre ob- bligandola a fermarsi, lui ricade perfettamente sulla tavola e loro due applaudono entusiaste. La bambina gli sorride, ha un cerchietto di fiorellini rosa sulla testa e gli occhi che sembrano due smeraldi tanto brillano. Anche Claudio le sorride. Dimentico di tutto. Sembra quella gente sia lì per lui, per guardare quello che sa fare e sarebbe bello, dav- vero bello, se fosse vero. Poi, tra tanti volti, quello di un ragazzo. Un cenno con il mento e si confonde tra la folla che sale la gradinata.
Claudio lo segue. Sale anche lui i gradini, lo skateboard sotto il braccio. Tutto è veloce dietro le macchine in sosta al primo piano del parcheggio. Il ragazzo che lo aspetta è lesto quanto lui. Una mano prende la bustina, una mano afferra i soldi. Mani sconosciute che si toccano, si sfiorano, in un attimo di sguardi fugaci in cui l’altro è nulla se non quello che da lui vogliamo. E poi si torna indietro. Altro giro, altra persona, i soldi che scompaiono nella tasca e che passano nella mano di suo padre e poi in un’altra mano e in un’altra ancora.
Il 343 è al capolinea con le porte aperte.
L’autista sale e accende il motore, gli basterebbe allun- gare il passo per prenderlo e sedersi, ma la tristezza gli si è cucita addosso. Sarebbe ancora più pesante guardare dal finestrino la vita degli altri che corre, meglio tornare scivolando sullo skateboard e caricare con la gamba a terra fin quando i muscoli indolenziti gridano aiuto. Per pensare a quel dolore e non pensare ad altro.
Quasi non si accorge di essere nuovamente su via Fiuminata.
È Adolfo che si accorge di lui, il vecchio bagnino di Ostia amico di suo nonno Bruno. Quand’era piccolo pas- seggiava a lungo con suo nonno, la piccola mano in quel- la ruvida di lui, s’incontravano con Adolfo e il suo cane. L’uomo gli regalava un tubetto di confetti Smarties che lui divorava a manciate, mentre il cane scodinzolava speran- do ne perdesse qualcuno. Alla fine del tubetto sia lui che il cane avevano la lingua colorata e nonno Bruno rideva na- scondendo con una mano il buco tra i denti davanti. Ripe- teva sempre che a fine mese sarebbe andato dal dentista, ma i soldi non bastavano mai.
Adolfo lo chiama. Lui rallenta la corsa. «Ah, Claudio, ndo’ te ne vai tutto de corsa? Te voi prende qualcosa al bar?»
Claudio esita. La tentazione di concedersi un momento con Adolfo è grande. È una persona serena, una di quel- le buone che non fanno rumore, come direbbe la Nobile. Ma fermarsi con lui al bar e parlare in due gli ricordereb- be com’era parlare in tre. Anzi, già l’ha ricordato e nonno Bruno ora gli manca. Livello tristezza da uno a dieci, ormai a dieci.
«Ce stai a pensa’ Claudie’?» «Grazie Ado’, me fermo un’altra volta, mo’ proprio non posso!»
E di nuovo, mentre si allontana correndo sullo skateboard, quella sensazione che a tratti l’invade e lo inquieta. Percepisce lo sguardo di Adolfo dietro di sé e pensa che l’uomo sappia. Che sappia tutta la verità su di lui e su suo padre. Vorrebbe girarsi per accertarsi di sbagliare. Magari è solo una sua sensazione, gli sembra sempre che tutti sappiano. Forse è la paura di essere scoperto. Se si gira, magari Adolfo non sta lì a guardarlo come lui sente e si rassicura. Invece non ce la fa. In fondo a volte la verità è meglio non saperla. Il dubbio fa meno male.
È allora che gli viene in mente Rosso Malpelo e la sua cava di rena. Claudio ha un’intuizione. Come se all’improvviso qualcuno avesse scostato una tenda rivelandogli una sorpresa nascosta. Il corpo si rilassa, il piede destro muove la tavola da skateboard a destra e sinistra, dondoandolo in un tranquillo Tip-tap. E il pensiero di colpo è chiaro. “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli ros- si; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.”
Tutto è in quel verbo. Promettere.
Significa che sarebbe andata come tutti pensavano sa- rebbe andata. Come le circostanze promettevano. Malpelo sarebbe stato un cattivo ragazzo.
Anche lui è uno che promette bene. Ciò che sarà del suo futuro è già stabilito nel luogo dove è nato e cresciuto. Il padre che ha. I vestiti che sceglie d’indossare. La scuola che frequenta. Tutti i suoi gesti e persino il suo modo di parlare. Tutto, ma proprio tutto, non è altro che il frutto di ciò che gli altri si aspettano da lui.
Ha mantenuto la sua promessa.
Del resto è stato facile adattarsi a tutto.
“Sapendo che era malpelo, ei si acconciava a esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva la gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui.”
Gradino. Poppata. Ollie.
I suoi piedi eseguono il trick in automatico, mentre lui sta dentro quel pensiero che prende forma e che gli rimugina in testa. Allora rallenta la corsa, lascia che sia lo skateboard a trasportarlo, il corpo abbandonato al suo dondolio.
In fondo non è che una proporzione matematica.
«Io sto a Rosso Malpelo come San Basilio sta alla cava di rena» si ripete una, due, tre volte perché a dirlo prende le misure tra sé e quel ragazzino che lavorava di piccone e zappa tutto il giorno. Diceva che la rena era “traditora”, così come lo sono gli uomini “che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, […] allora si lascia vincere”.
Claudio la pensa come lui.
L’ha sperimentato sulla sua pelle quando ancora era molto piccolo.
A San Basilio vecchia i palazzi erano stati costruiti in modo da chiudersi intorno a cortili che venivano chiamati lotti e che erano stati numerati. Sabrina e uno dei suoi tre fidanzati abitavano al lotto quarantanove, Gianni, con le saette disegnate sulla testa rasata, abitava invece al cinquantuno. E anche quando ci si dava un appuntamento si diceva «Ce beccamo al quarantanove», bastava il numero e si sapeva dove aspettare.
C’era stato un tempo in cui, visti da un elicottero, i palazzi formavano la scritta DUCE, perché San Basilio era stata voluta da Benito Mussolini per liberare il centro di Roma dai cenciosi e dalle loro baracche. Per rendere più bello il centro storico li aveva spostati tutti lontano, così i turisti non vedevano quel popolo di pidocchiosi e pensa- vano che Roma fosse grandiosa davvero.
Claudio lo sapeva perché alla scuola elementare la maestra Donatella aveva portato le fotografie in bianco e nero di un’epoca lontana, quando al posto di quei palazzi c’erano delle baracche di carpelite, una mistura di acqua, paglia e cemento che gli abitanti chiamavano “le case sette lire”, perché di più proprio non valevano, che d’estate ci morivi di caldo e d’inverno ci morivi di freddo.
Poi erano stati costruiti i lotti e nei cortili i ragazzini trascorrevano l’estate litigando, giocando e crescendo. Ci si conosceva tutti. Suo padre gli aveva raccontato che quando aveva dieci lire saliva di corsa le scale perché all’ultimo piano c’era un uomo molto anziano che tutti chiamavano “il nonnetto”. La porta della sua casa era aperta e su un banchetto all’ingresso trovavi esposte caramelle dai mille colori, gomme, lecca-lecca e fette di torte fatte in casa. Davi le dieci lire e sceglievi quello che volevi. Ogni palazzo ave- va i suoi “nonnetti”. La bancarella era un modo per arro- tondare la pensione. C’era “la pasticcera”, una signora che sfornava torte di compleanno belle come quelle della pa- sticceria ma a metà prezzo, o la “varechinaia”, che vendeva detersivi facendo concorrenza ai negozi. E se chiedevi con educazione, ma stando attendo a non domandare troppo, scovavi persino chi vendeva lenzuola e capi da corredo per le ragazze che dovevano prendere marito. Ancora confezionate. Da dove arrivasse la merce e come i proprietari ne entrassero in possesso non era dato sapere, ma ognuno si arrangiava come poteva. Ci si aiutava, ai tempi in cui suo padre era un bambino, e i soldi giravano all’interno del quartiere come conviene a una buona comunità.
Claudio era nato e cresciuto nella parte nuova di San Basilio, quella delle case occupate. Non c’erano recinzioni a chiudere e difendere i cortili, ma Claudio nel tempo aveva imparato che anche se non le vedi le recinzioni ci sono lo stesso. Alle case occupate c’era un’unica via che si chiudeva a cul-de-sac, come dicevano i francesi e come gli aveva spie- gato suo nonno. Significava che c’era una sola strada d’en- trata e d’uscita, per questo quando la polizia doveva fare una retata faceva presto. Metteva una pattuglia all’inizio e alla fine della via e nessuno poteva passare, neanche gli autobus. La gente se ne andava a piedi o si rintanava in casa che era meglio.
Quando Claudio aveva sette anni, scendeva in strada da solo e si fermava in uno spiazzo di cemento tra due palazzi. Lì dei ragazzi avevano disegnato, una di fronte all’altra, due porte e trascorrevano i pomeriggi a giocare a calcio. Claudio portava con sé una palla, ma non lo face- vano giocare mai. La palla gli veniva sottratta dai ragaz- zini più grandi, lo facevano giocare solo quando si stava facendo sera ed era ora di tornarsene a casa. Suo padre si affacciava ogni tanto dal balcone a guardare che ancora ci fosse e quando tornava a casa lo scherniva perché non si faceva rispettare. Gli gridava che doveva svegliarsi, che doveva farsi furbo, ma a lui quei discorsi facevano l’effetto contrario a quello sperato. Lo stordivano. Così il giorno dopo, come i ragazzi più grandi si avvicinavano, non do- vevano lottare per prendergli il pallone, lo offriva lui sen- za opporre resistenza, pensando fosse quella la furbizia di cui parlava suo padre. Due anni dopo nonno Bruno gli aveva regalato uno skateboard ed era cominciata la sua vita solitaria a misurare gradini, panchine di marmo, ringhiere di ferro, pavimentazioni lisce, amichevoli e insidiose, pavimentazioni dal brecciolino in agguato.
Claudio aveva scoperto con sorpresa le proprie capacità. Era un tipo caparbio. Ripeteva i trick finché non gli riuscivano. E in quella solitudine, a misurarsi con il pro- prio corpo, si era sentito finalmente libero. Non aveva più dovuto sgomitare per giocare qualche minuto a pallone. Ora, mentre vola sullo skateboard, come uno schiaffo lo raggiunge la consapevolezza che lui non vuole perdersi nella cava di rena e poi morire, com’è accaduto a Rosso Malpelo. Lui vuole essere l’aquila pronta a librarsi nel vuoto, sopra la rampa del Vert.
Di colpo quello che vede gli procura fastidio.
Gli uomini a parlare fuori dal bar, la zingara a chiedere l’elemosina sui gradini della chiesa, una macchina ferma con lo sportello aperto a intralciare la strada. Sempre le stesse scene, sempre gli stessi volti. Cosa fanno nella loro vita quegli uomini? Come trascorre un’esistenza senza so- gni, senza un pensiero che possa far vedere altro oltre la linea di partenza?
A pensarlo gli manca l’aria.
Claudio spinge forte con il piede destro a terra, senza rendersi conto della velocità che ha preso. Serra le labbra
e corruga la fronte in una smorfia di disappunto. Salta con lo skateboard su una ringhiera di ferro, la percorre tutta in uno stridio sordo che sintetizza i suoi pensieri in un’unica frase.
No. Lui non vuole morire in una cava di rena.
© RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilgiornaledelricordo.it
News » Il racconto della Domenica | domenica 10 marzo 2019
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