Vento e voci, Milano invasa dagli studenti
14 novembre 2025
C’era un’aria tesa ma limpida, questa mattina, in largo Cairoli. Come quando, a Milano, succede qualcosa che non è solo cronaca: è un fremito. Da ogni angolo della città arrivavano gruppi di studenti, zaini sgonfi sulle spalle e cartelli tenuti stretti come fossero scudi. Pareva che per loro il mondo: il clima, la Palestina, la scuola, la politica, fosse diventato improvvisamente minuscolo e urgente, un nodo che non lasciava più dormire.
Erano in millecinquecento, dicono. Ma a guardarli sembravano di più, come se ogni ragazzo si portasse dietro un altro sé stesso: quello stanco delle aule fredde, quello arrabbiato per le guerre, quello che non vuole più fare finta di niente.
La manifestazione dell’Unione degli studenti, a cui si erano unite altre sigle, avanzava tra i palazzi come una corrente elettrica. Su uno striscione, qualcuno aveva scritto: «Blocchiamo la scuola di Meloni e Valditara». Su un altro, più feroce: «Guerra, repressione, genocidio: mandiamo a casa questo governo». C’erano anche cartelli che mostravan i volti dei leader politici con macchie rosse sulle mani. Un simbolo, spiegavano gli studenti, della complicità che attribuiscono alle istituzioni italiane nelle tragedie in Medio Oriente.
Da un lampione, un ragazzo del Virgilio si era arrampicato fino quasi a sfiorare la statua di Vittorio Emanuele. Quando ha srotolato una grande bandiera palestinese, la folla sotto di lui ha sollevato un coro che rimbalzava sulle finestre dei palazzi, come un richiamo antico: «Palestina libera dal fiume fino al mare».
Accanto alle bandiere palestinesi, quelle verdi di Fridays For Future: i ragazzi del movimento climatico erano lì a ricordare che c’è un’altra emergenza, meno rumorosa di una guerra, ma altrettanto micidiale, che avanza giorno dopo giorno.
Gli atti simbolici: fuoco e nomi
In piazza Missori, il corteo si è fermato. Un silenzio improvviso, quasi irreale, e poi uno striscione lunghissimo, costellato di nomi: centinaia di vittime palestinesi. I ragazzi lo hanno srotolato come fosse un sudario.
«Noi non saremo mai complici», ha gridato qualcuno al megafono, e subito la piazza si è riempita di un applauso che più che entusiasmo sembrava un giuramento.
Più avanti, in via Larga, il secondo gesto: cartelli con parole-tabu? “patriarcato”, “omertà”, “tabù” bruciati in testa al corteo. Il fumo saliva lento, come se non avesse fretta di andarsene. “Vogliamo un’educazione sessuale che guardi tutti e tutte, anche chi oggi viene ignorato”, hanno detto. “Non quella che immagina il governo”.

Università e istituzioni nel mirino
Davanti alla sede di Scienze Politiche della Statale, ancora segnata dall’occupazione dei giorni scorsi, studenti indipendenti e collettivi di Link hanno ricordato che anche l’università, quella che dovrebbe essere il luogo del pensiero libero, si sente strangolata.
«Vogliono tenere l’ateneo sotto controllo. E intanto è sottofinanziato da anni», denunciavano, mentre il corteo si allungava verso Corso Monforte.
All’incrocio con via Vivaio, nuovo stop. Le transenne davanti alla sede della Prefettura e di Città Metropolitana sono state avvolte nel nastro adesivo come fossero un pacco da rispedire al mittente. “Le scuole cadono a pezzi e loro progettano solo nuove vetrine”, accusavano i ragazzi. Parlano di muri scrostati, finestre bloccate, riscaldamenti impazziti, laboratori trasformati in magazzini. “Non vogliamo banchi nuovi: vogliamo edifici che non crollino”.
Un gruppo di manifestanti si è imbavagliato per protestare contro le violenze nelle recenti manifestazioni. Era un’immagine inquietante, quasi teatrale, che ricordava certe scene di Buzzati: quei silenzi improvvisi che fanno più rumore degli urli.
La scuola che cade sul serio
Intanto, in un altro angolo della città, gli studenti del Marelli-Dudovich aprivano la loro protesta con secchi d’acqua in mano.
“L’acqua cade dal soffitto. Noi cadremo dopo?”
La domanda campeggiava su un cartello che non aveva bisogno di commenti. La palestra è chiusa da mesi per rischio crollo; l’acqua filtra da un anno, dicono loro, e le segnalazioni sono rimaste appese nel vuoto come biglietti dimenticati. Risultato: educazione fisica all’aperto quando c’è il sole, sospesa quando piove, ore perse tra corridoi e tappeti improvvisati.
Nel corteo di questa mattina, però, non c’era solo indignazione. C’era una stanchezza adulta, di quelle che negli adolescenti non ti aspetti. “Vogliamo solo sicurezza”, ripeteva una studentessa del secondo anno. “Un posto in cui studiare senza paura che il soffitto ci cada addosso”.

E Milano ascolta
Nel pomeriggio il vento si è alzato, quello vero. Ha spinto via un po’ del fumo, un po’ dei cori, ma non quello che resta attaccato ai muri quando succede qualcosa che la città non dimentica.
Milano ha visto cortei infiniti nella sua storia. Eppure, qualcosa in questa mattina sembrava diverso: forse la compattezza, forse la rabbia lucida, forse il bisogno collettivo, quasi disperato, di dire che così non va. E che non può continuare.
Gli studenti se ne sono andati piano, in ordine sparso, come si disperdono le onde quando la marea si ritira. Ma l’eco è rimasta. Milano l’ha sentita. E adesso non può far finta di niente.
di Giorgia Pellegrini
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