OSTEOPATIA: LA SALUTE PRIMA DI TUTTO

28 agosto 2019

di Mattia Basile 
 
L’osteopatia nasce alla fine dell’Ottocento, in una piccola cittadina del Missouri, negli Stati Uniti, per opera delle intuizioni e della genialità di Andrew Taylor Still, il quale andò in contrasto con la medicina dell’epoca, e decise di concentrarsi su una scienza che non andasse ad indagare gli effetti, ma le cause dei disordini e delle patologie dell’essere umano.
Uno dei suoi insegnamenti principali è stato quello di concentrarsi sulla salute di una persona, perché a concentrarsi sulla malattia ci pensavano già i medici allopatici, con risultati a suo dire quantomeno insoddisfacenti.
Ma che cos’è la salute? Secondo una bellissima definizione data dalla biologia applicata, un sistema mostra la massima efficienza quando è in grado di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente esterno nel modo più veloce possibile e con il più alto numero di possibilità di cambiamento. Organismi semplici, come le amebe, hanno poche variabili alle quali doversi adattare, come la temperatura, la pressione, la luce e poche altre, ma l’essere umano è un organismo estremamente più complesso ed ha bisogno di adattarsi anche a variabili psichiche, cognitive e sociali.
A questo proposito sono molto interessanti le scoperte fatte da uno studioso americano, Judkins, sul carico allostatico ovvero sulla quantità di risorse che vengono spese per riuscire ad adattarsi all’ambiente, come misurazione dello stato di salute. Infatti più questo carico è basso e più sono in grado di adattarmi, mentre più risorse io spendo meno sono in grado di adattarmi.
Questo è dovuto al fatto che le risorse non sono infinite, ed è come se la nostra salute fosse un mazzo di carte: se io ne ha quaranta a disposizione, ma ne utilizzo trentacinque solo per mantenere i miei livelli di omeostasi, ecco che me ne rimangono pochissime da giocare per tutte le altre partite.
L’osteopatia lavora proprio nel senso di abbassare il carico allostatico, e lo fa attraverso una interazione con i sistemi di adattamento del corpo umano indagando tutti i tessuti, da quello muscolo-scheletrico, alle fasce, al sistema viscerale, alla componente cranio-sacrale.
Ma com’è possibile agire su livelli così diversi, soprattutto su profondità così differenti, utilizzando solo le proprie mani? La chiave di questa domanda sta nel fatto che è il sistema del paziente che ti dice se c’è una disfunzione, e quindi a che livello palpatorio si trova, e non è l’osteopata che la va a cercare. Utilizzando una bella metafora che prendo in prestito da uno dei miei mentori, il sistema di analisi dell’osteopatia non è la risonanza magnetica ma la pet; nel primo caso l’immagine dipende dalla variazione di energia emessa dal magnete, il quale fornisce un input esterno fisso e si basa solo su quello, nel secondo invece è l’assorbimento di energia metabolica (nel caso della pet l’assorbimento del glucosio) che ti fornisce l’immagine quindi è sempre presente un input esterno, ma ciò che conta è la qualità della risposta.
Tornando alla pratica, l’osteopata utilizza anch’esso un input esterno fisso e standardizzato (l’appoggio delle mani sul paziente), ma ciò che valuta è la risposta dell’organismo a tale stimolo, ed è su quella che si basa la diagnosi e, di conseguenza, il trattamento.
E che cos’è questa “risposta” che l’osteopata ricerca quando mette le mani su un paziente? Si tratta di ciò che viene definita “disfunzione somatica” ovvero di un adattamento non fisiologico dell’attività nervosa, in particolare neuro-vegetativa.
Si può manifestare come un tessuto “duro”, oppure come una incapacità di muovere una articolazione da una parte (in genere accompagnata da una estrema facilità a muoverla dall’altra), oppure ancora come un dolore o un fastidio nel compiere certi movimenti o nel mantenere certe posture, e quello che si pensava fino a pochi anni fa, e che forse qualcuno tutt’ora ipotizza, è che le manipolazioni osteopatiche generino una modificazione anatomica, soprattutto quando si sentono i famosi “crac” nella schiena o nel collo.
In realtà in questi casi viene data una informazione al sistema nervoso ortosimpatico, e non si ruota una vertebra o non si riposiziona un menisco, ma si fornisce un impulso che va a “spegnere” un circuito neurologico che si è creato nel tempo, e si fornisce all’organismo la capacità di adattarsi meglio successivamente o, come accennato precedentemente, si aumenta la capacità di salute del paziente.

Mattia Basile
presso WellBe Fit
Via del Boschetto 43, Roma
 
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