JACK PANNELLA UNA LEGGENDA DI PAESE Parte 1

30 aprile 2017

di Paolo Di Mizio

Appendice 11

JACK PANNELLA UNA LEGGENDA DI PAESE

Pochi giorni fa, presumibilmente la sera di mercoledì 21 Ottobre 2015, è morto Jack Pannella, all’anagrafe Giacomo Di Giuseppe, nella sua casa a San Benedetto del Tronto. Aveva sessantanove anni. Il suo nome anagrafico come anche il suo ‘nome d’arte’ non dirà nulla a chi non l’ha conosciuto. Quando ero ancora un adolescente e lui era già oltre i vent’anni, in paese aveva la fama di viveur e di avventuriero. Era alto con folti capelli neri e aveva lo sguardo sempre guardingo, come se temesse un attacco al coltello ogni momento da chissà quali nemici. Credo che nessuno lo abbia mai aggredito, ma se davvero un giorno fosse successo, potete giurare che a detta di chiunque in paese si sarebbe trattato di questioni di donne: tale era la sua fama.

Lo guatavo da lontano, con un misto di timore e di ammirazione. Anche lui mi guardava, ma data la differenza d'età teneva il punto di non darmi molta confidenza.  Né io osavo entrare nel suo cerchio più di tanto. Ci parlavamo ogni volta con poche frasi, poi lui guardava in alto con aria superiore e trasognata, inseguendo il fumo della sua sigaretta. Si capisce: ero quasi un bambino, lui un uomo fatto.

Un giorno lo chiamarono a fare il servizio militare. Scomparve. L'esercito non ebbe mai il piacere di regalargli una divisa. Più tardi si seppe che era espatriato rocambolescamente in Francia, a Parigi.

Sulla sua misteriosa vita francese in paese cominciarono a correre leggende metropolitane. Lavora come croupier in un casino, si diceva. Le voci, sempre più fantasiose, si inseguivano. È diventato un pezzo grosso della malavita parigina, azzardavano altri, che si davano arie di ‘ben informati’ e ammiccavano, come per far intendere che il milieu criminale parigino - era questo il sottinteso - aveva trovato una brutta gatta da pelare, ora che lì nella ville lumière era arrivato un duro come Jack Pannella. E dietro questi pensieri s’intravedeva benissimo l'orgoglio del paese per un concittadino che all’estero si guadagnava rispetto. La verità è che nessuno sapeva niente, ma proprio niente, di lui e della sua vita in Francia.

Qualche anno più tardi lasciai San Benedetto del Tronto per affrontare il mondo e di quel personaggio così singolare mi rimasero solo poche memorie. In fondo, non avevo mai scambiato grandi conversazioni con lui, per la differenza di età, come dicevo, che era anche una differenza di status. Seppi solo, molto tempo più tardi, che come misteriosamente era scomparso il giorno in cui avrebbe dovuto arruolarsi, altrettanto misteriosamente era ricomparso in paese uno o due decenni dopo la sua partenza, quando ormai il reato di renitenza alla leva era caduto in prescrizione (la prescrizione all'epoca, se non vado errato, scattava dopo dieci anni).

Circa due anni fa lo rividi infine a San Benedetto del Tronto. Una sera ero seduto in un piano-bar del lungomare con alcuni amici, quando Jack Pannella entrò. Era uguale a come lo ricordavo da giovane. Mi guardò, ci sorridemmo a distanza facendoci un cenno col capo, rivedendoci dopo tanto tempo. Lui si avvicinò, mi alzai in piedi, ci stringemmo la mano, ci parlammo un poco come due vecchi amici, ma senza smancerie, con un sobrio e reciproco piacere. Era cortese, gentile, ben educato. Parlava con quella voce bassa e vellutata che ricordavo. I capelli ancora nerissimi, forse tinti, e anche i baffi, e lo sguardo ancora circospetto, come se temesse sempre quel famoso attacco al coltello che non era mai avvenuto, per quanto ne sapessi.

Mi disse che aveva lavorato a lungo in Francia, senza precisare quale genere di lavoro, e che ora si occupava di un centro sociale o qualcosa del genere a San Benedetto del Tronto. Mi chiese un paio di cose di me. Infine ci augurammo di rivederci presto e lui andò al tavolo dove lo attendevano alcuni amici.

Non ci siamo più rivisti, e mi dispiace molto. Avrei parlato volentieri con quella leggenda di paese: avrei voluto conoscere meglio quell'uomo che nel mio immaginario di adolescente, e non solo nel mio, aveva occupato un posto così prestigioso. Avrei voluto sapere che vita aveva condotto, lui che come me aveva vissuto una parte della sua esistenza tra gente straniera, parlando una lingua straniera. Avrei voluto sapere soprattutto che cosa avesse appreso dalla vita. Ognuno apprende cose, giuste o sbagliate che siano. Ma sentivo che lui aveva qualcosa di speciale da dirmi, da insegnarmi. Pur parlandoci così poco quando eravamo giovani, ci eravamo scambiati sguardi, ci eravamo spesso osservati reciprocamente, eravamo insomma entrati in contatto, in qualche modo misterioso, su una stessa lunghezza d’onda mentale. Come se sentissimo che un giorno in un lontano futuro avremmo avuto un messaggio da trasmetterci. Per questo oggi so, con certezza, che lui aveva qualcosa da dirmi, da insegnarmi della vita. Né poteva essere diversamente per uno che era stato, ed era ancora, una leggenda chiamata Jack Pannella.

Ma il suo giorno si è chiuso troppo presto. È morto senza accorgersene, senza soffrire: in poltrona,  con la sigaretta tra le dita, dicono le cronache. Non sentirò più la sua voce. Non saprò mai nulla di lui. Il suo messaggio non mi arriverà, è stato intercettato dalle forze del male, forse le stesse dalle quali aveva sempre temuto un attacco al coltello. Peggio per noi che siamo ancora qui e che dovremo fare a meno del suo messaggio.

Quanto a te, hai giocato bene la tua parte sul palcoscenico della vita: ora riposa in pace, amico mio Jack Pannella.

Tratto da Paolo Di Mizio ,“Teneri lupi”, Capponi Editore

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