MONTANELLI BEFFA I TEDESCHI
05 luglio 2017
di Giovanni Curatola
QUELLA FURBATA CHE MONTANELLI FECE BERE AI TEDESCHI…
(tratto da “Fummo giovani soltanto allora”)
…Fu così che Borelli (direttore del “Corriere della Sera”) nell’estate del 1939 appioppò all’apprendista Indro un servizio da latte alle ginocchia, o almeno noioso lo considerò Montanelli: seguire per un mese 200 giovani ciclisti in camicia nera, marmocchi poco più o poco meno che diciottenni, che a luglio erano in procinto di partire da Verona pedalando in direzione della Germania, la nuova alleata, la nazione sorella.
Pura propaganda, pura retrovia giornalistica, che non corrispondeva certo alle ambizioni di quel giornalista che ormai s’era fatto esperienze da inviato e che osservava la scacchiera della politica internazionale con occhi iniettati di curiosità. Dopo l’Austria e i Sudeti, infatti, di fronte all’acquiescenza di Francia e Inghilterra, Hitler non dava l’idea di aver placato la propria fame. Tutto sembrava in movimento, tutto possibile. Si apparecchiava un periodo di estasi infervorata, forse di guerra. E lui, lo scalpitante Indro, si trovava invece a dover inseguire in automobile quei ciclisti lungo una strada avvolgente e monotona. Si può dunque immaginare il suo stato d’animo nel giorno della partenza da Verona, il 30 luglio, quando il segretario del partito fascista Achille Starace pronunciò un discorso solenne e marziale di fronte a quella brigata un po’ scalcagnata di giovani pedalatori.
I ciclisti pedalavano su biciclette vecchiotte, rigide e pesanti. Arrivati al Brennero, furono raggiunti da pedalanti camerati germanici, alti, prestanti, biondi, a cavallo di bici luccicanti e perfette. Tutti verso Berlino. Ai primi di agosto, Indro già non ne poteva più di biciclette, saluti camerateschi, accoglienze entusiastiche, baci e fraternità italo-tedesca. E nemmeno delle mille storielle in cui gli italiani facevano valere le loro doti di amanti latini con le rotonde ragazzotte della Baviera. “Questa zuppa continuerà ancora una ventina di giorni” scrisse a Borelli un annoiato Indo. Credeva, e non a torto, che qualcosa di grosso stesse per succedere in Europa e voleva esserci. L’incarico delle biciclette era per lui così barboso che una mattina, osservando la campagna tedesca e i contadini intenti ai lavori, il fantasioso giornalista decise di incrinare la noia con una nota di colore inventata di sana pianta. Battendo sui tasti della sua Olivetti, partorì l’immagine dei ciclisti italo-teutonici che, avendo visto dei contadini lavorare con sudore la terra, avevano interrotto la pedalata per aiutarli a mietere il grano. Soddisfatto dell’idea, capace di aggiungere un po’ di movimento a un racconto inevitabilmente sempre uguale a se stesso, telegrafò il pezzo al giornale e se ne andò a letto.
La mattina dopo irruppe furente nella sua stanza il corrispondente de “Il Popolo d’Italia”. Era stato aspramente rimproverato dal suo direttore per aver bucato la notizia dei ciclisti che avevano mietuto il grano coi contadini. A Roma erano entusiasti della notizia di Indro, e per quel gesto rurale e cameratesco avevano deciso di decorare tutti, italiani e tedeschi. Il segretario del partito Starace aveva spedito un telegramma di congratulazioni. E Indro dovette apprendere la notizia con divertito stupore ma pure con la paura dannata che qualcuno tra i ciclisti potesse protestare, indicandolo come un cronista cialtrone. Di fronte alla prospettiva d’una medaglia, però, non sarebbe stato difficile persuadere la pattuglia di ciclisti italiani a far finta che l’episodio fosse realmente accaduto. Era più complicato, invece, spiegare la faccenda ai tedeschi. SI trattava di trovare un equilibrio tra l’intransigenza dei ragazzi della Hitler-Jugend e l’accondiscendenza degli italiani. Così Indro si trovò a dover farfugliare ai tedeschi una semi-verità: cioè di aver percepito dagli sguardi intensi che i ciclisti rivolgevano ai campi un’intenzione che lui poi aveva elaborato, prendendosi una licenza letteraria. In fondo, spiegò, qualità imprescindibile del narratore non è anche quella di saper cogliere le intenzioni dell’animo umano? E poi descrivendo quel fatto, pur se non avvenuto, non aveva forse colto lo spirito del cameratismo nazi-fascista, della fratellanza italo-tedesca? La scusa funzionò, e non ci furono conseguenze. Di fronte ai rigidi tedeschi se l’era cavata con quell’infiocchettata, acrobatica ricchezza verbale di cui era dotato.
A metà agosto la biciclettata si concluse senza ulteriori incidenti giornalistici. Indro arrivò nella capitale tedesca una lucida mattina di vento, di quelle che sembrano chiudere l’estate. Sulle ampie strade che si trovò a percorrere per quegli ultimi chilometri, in compagnia dei giovani camerati in bicicletta, non c’era grosso movimento. Quel poco, era monopolizzato da camion che trasportavano mercanzia militare. La gente non diceva nulla. Qualcuno buttava fiori alla pattuglia in bici. Ad Indro, Berlino parve muoversi senza eccessi di partecipazione e particolare emotività ostentata. E per questo, ad uno che non amava gli eccessi, dovette piacergli. Nella capitale del III° Reich quasi nessuno si aspettava la guerra. O meglio, non credeva fosse così imminente. “Tutto finirà in una conferenza europea, con Mussolini solito mediatore” si vociferava negli uffici e tra i giornalisti. Invece all’inizio delle ostilità mancavano due sole settimane…
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