MILANO IN GUERRA: IL FINTO SCOOP DELLA PUBLIFOTO

08 ottobre 2018

MILANO 1945: I FALSI FOTOGRAFICI DELL’INSURREZIONE CHE NON CI FU
 
di Giovanni Curatola
 
Fedele Toscani, padre dell’attuale fotografo Oliviero, fu - con Vincenzo Carrese e Mario Farabola - uno dei fondatori nel 1937 dell’agenzia milanese “Publifoto”. Sempre in prima linea negli avvenimenti di rilievo da lì in avanti, Toscani e i suoi reporter fecero parte durante la guerra del “Nucleo speciale documentaristi” che, tra gli eventi immortalati, annovererà anche quello di piazzale Loreto. La maggior parte del materiale di quella domenica mattina infatti (scatti e filmati), proverrà proprio dalla“Publifoto”, che lo rivenderà a case editrici ed agenzie di stampa anche straniere per la realizzazione dei “Combat film”, pur essendo presente a quella macabra scena di fine guerra anche una troupe americana.
Pochi giorni prima, su commissione (e pressione) dei capi partigiani del CLN, la “Publifoto” si era resa complice di un falso, documentando o meglio ricostruendo una “liberazione” che non ci fu. Come noto infatti, il grosso delle truppe fasciste - radunatasi la notte del 26 aprile in via Dante, lasciò Milano all’alba dal lato di corso Sempione. Si trattava della cosiddetta “colonna Pavolini”: 5/6.000 armati (Brigate Nere, GNR, Legione “Muti” e gruppi vari di reparti superstiti o profughi delle provincie invase) diretti a Como incontro a Mussolini. I pochi reparti della RSI che restarono in città (X° Mas su tutti) si acquartierarono nelle proprie caserme in attesa degli angloamericani, cosa che già da 2 giorni già avevano iniziato a fare i tedeschi. Milano insomma, una volta evacuata da forze nazifasciste e con le poche rimaste che non avrebbero più messo il naso fuori dalle proprie caserme, si ritrovò “libera” senza colpo ferire e senza ancora alcuna forza partigiana presente. I primi nuclei armati (600 partigiani dell’Oltrepò Pavese) giunsero infatti in città dalla Conca Fallata alle - 16.30 del 27 aprile 1945 - per il sollievo dei “cesari” della Resistenza che, in questo giorno e mezzo in cui Milano era di fatto rimasta “terra di nessuno”, non potendo ancora contare su propri uomini armati dovettero ricorrere ad alcuni provvidenziali nuclei compiacenti della Guardia di Finanza per l’occupazione di Prefettura, Questura, Municipio, sede EIAR e altri punti nevralgici della città ormai evacuati dai fascisti. Ma una città lasciatagli pacificamente dal nemico in partenza, e il conseguente passaggio di poteri avvenuto senza sparare un colpo, non poteva minimamente soddisfare i vertici partigiani. Oltre che assai poco onorevole, la realtà di quel trapasso li avrebbe infatti screditati agli occhi degli Alleati (non ancora giunti in città), ne avrebbe rilevato la loro totale inconsistenza militare e, cosa ancor più grave, avrebbe costituito la prova più lampante che la Resistenza non era affatto quel corale movimento di popolo che si vorrà poi consegnare alla storia, perché i milanesi anziché insorgere preferirono barricarsi in casa fino alla certezza che la bufera fosse passata.
Insorgere? Contro chi? Se l’insurrezione popolare non scoppiò, né il 25 aprile né mai, fu per il semplice motivo che non c’era più nulla contro cui insorgere. Ma ammetterlo era inaccettabile, uno smacco da evitare a ogni costo. Per legittimare se stessa, la Resistenza aveva assoluta necessità di accreditare la tesi di una Milano “liberatasi” da sé prima dell’arrivo degli anglo-americani. Una tesi da costruire a tavolino e per la quale, prima ancora di ricorrere alla fantasia con finti memoriali e finte testimonianze infarcite di finto eroismo, occorreva quantomeno uno straccio di documentazione fotografica. Il CLN si rivolse pertanto subito ai reporter della “Publifoto”, che spesero il pomeriggio del 26 aprile e la mattina seguente (ancora dunque in assenza di forze partigiane in città) ad ingaggiare i propri fattorini, i propri commessi e passanti occasionali, imbacuccarli da partigiani affibbiandogli un fazzoletto al collo e un’arma in mano (che punteranno verso il vuoto), portarli su qualche tetto, al primo angolo di strada o davanti qualche fabbrica, improvvisargli davanti una finta barricata, indurli a sguardi guerrieri e immortalarli in quelle foto ancor oggi presenti su libri e riviste alla voce “Liberazione di Milano”. Non si trattò, intendiamoci bene, di fotomontaggi o di scatti alterati, ma sempre falsi storici furono, perché totalmente avulsi dal contesto di guerriglia urbana dove invece si pretendeva fossero inseriti. Eppure la persistente mancanza del nemico in ciascuna di queste foto avrebbe dovuto comunque far sospettare della loro autenticità. Decine e decine di inquadrature a fucili puntati e neanche una all’obiettivo da colpire. Bah…! Non tarderanno tuttavia ad ammettere il bluff, col passare degli anni, gli stessi dipendenti di “Publifoto” di allora. Settantenni negli anni ‘80/’90 che all’epoca dei fatti ne avevano 30/40, se non di meno.
Infine, quando negli anni ancora più recenti un gruppo dell’Olivetti rileverà l’ex “Publifoto” con quel che restava del suo immenso archivio, torneranno alla luce tra le altre cose anche i negativi e gli originali di quei giorni (ne furono consumati a quello scopo 4/5 rullini in tutto). E, fatto curioso ma determinante ai fini della verità qualora ce ne fosse ancora bisogno, ai lati di quasi tutte quelle foto di “patrioti” in combattimento per le strade, intenti a snidare cecchini fascisti sui tetti o a sparare loro per difendere le fabbriche, compaiono capannelli di gente pacifica che fuma o conversa serena. Parti di foto “improponibili” - per i contesti bellici di guerra che si volevano accreditare -dunque accuratamente “tagliate”, prima di essere date ai giornali e alle case editrici. Questi scatti sono rilevatori dell’atmosfera - totalmente rilassata e pacifica - in cui vennero scattate.
 
 
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