La vittima più illustre del calcio moderno12/4/2021

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La vittima più illustre del calcio moderno12/4/2021

di Giovanni Curatola

Fu sul finire del secolo scorso che il mondo del pallone, vista l’incapacità di continuare ad autoalimentarsi finanziariamente dopo avere soprattutto nei due ultimi decenni dilapidato se stesso, finì per consegnarsi, mani e piedi, alle televisioni a pagamento. Le grandi piattaforme private a pagamento accorsero così al capezzale del moribondo, rimettendolo in piedi col loro apporto di capitali freschi.

Ma poiché ogni cosa ha il suo prezzo, figuriamoci nel calcio, la contropartita fu alta: il controllo dell’intero sistema pallonaro. I ruoli così finirono per invertirsi e le tv, fino ad allora contribuenti del sistema, finirono per assumerne il comando e imporre le proprie leggi.

Orari e calendari delle partite vennero così stravolti e frammentati (da qui la definizione “campionato-spezzatino”), gli stessi format delle competizioni e altre regole pallonare subirono modifiche più o meno incisive laddove meglio si sarebbero adattate (o almeno così si pensava) alle esigenze delle tv.

In barba alla tradizione, e in nome dell’equazione “più partite = più soldi” furono così “gonfiate” le competizioni europee e introdotte novità quali ripescaggi, fasi a gironi, passaggi in corso d’opera da una competizione all’altra, nonché astrusi coefficienti di valutazione per nazionalità e per singolo club. In sostanza, si allungò il brodo con la speranza (o l’illusione) che l’aumento del numero di partite fosse direttamente proporzionale all’accrescimento dello spettacolo in campo, e soprattutto degli introiti televisivi e allo stadio.

Le Coppe cambiarono così forma e perfino nome (la Coppa dei Campioni diventò Champions League, la Coppa UEFA, Europa League), per il disappunto dei calciofili non più giovanissimi e imbevuti di romanticismo e tradizionalismo come chi scrive. Su costoro, che a fatica già da un pò stavano iniziando a digerire un campionato con gare non più tutte in contemporanea la domenica, le coppe europee non più sempre e solo di mercoledì e con gare non più di sola andata e ritorno ma inserite in gironi, si abbatté un’altra conseguenza dello scardinamento di tali dogmi pallonari ritenuti intoccabili: l’abolizione della Coppa delle Coppe, il secondo torneo continentale per importanza dopo la Coppa Campioni ribattezzata “Scempionslig”. Abolita dalle tv a causa dei ritorni economici ritenuti insoddisfacenti, la Coppa delle Coppe fu così assorbita dall’Europa League, dove venne disciolta e annacquata con la sua specificità, il suo blasone e le emozioni che aveva sin lì saputo suscitare in chi vi ci giocò o la seguiva in tv.

Alla compianta Coppa delle Coppe hanno partecipato, per 39 anni, le vincenti delle rispettive coppe nazionali. Il format è sempre rimasto identico, dai sedicesimi di finale alla finale in gara secca in campo neutro. Dalla stagione 1960-61 (prima edizione, vinta dalla Fiorentina) a quella 1998-99 (ultima, vinta da un’altra italiana: la Lazio), mai nessuna squadra è riuscita ad aggiudicarsela per 2 anni di seguito. Delle 3 coppe europee, era esteticamente la più bella, perché dalla forma più classica. I club europei più blasonati a cui era in tale anno impedita la Coppa dei Campioni, all’inizio un po’ la prendevano sottogamba, salvo poi darci il giusto peso dai quarti di finale in poi, spesso per salvare la stagione. Per le altre squadre, ossia la quasi totalità, quella Coppa costituiva la vetrina più importante per mettersi in mostra nel firmamento pallonaro europeo. Fu il caso soprattutto delle squadre dell’Est. Attraversando due terzi di Guerra Fredda (30 anni su 45), la Coppa delle Coppe offrì la ribalta a moltissime squadre dei paesi del blocco sovietico (Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria), oltre cha alla stessa U.R.S.S. che la fece sua in 3 occasioni (2 con la Dinamo Kiev, una con la Dinamo Tiblisi). Altri 2 successi oltre-cortina si ebbero col Magdeburgo (Germania Est) e con lo Slovan Bratislava (Cecoslovacchia). Nomi più o meno curiosi, se non proprio esotici, perché meno noti, capaci di dare un contributo allo studio della geografia. Le italiane se l’aggiudicarono 7 volte: 2 il Milan, una ciascuno Juventus, Fiorentina, Lazio, Sampdoria e Parma. I blucerchiati furono gli ospiti italiani quasi fissi della manifestazione negli anni ’80, il Parma lo fu nel decennio successivo, l’ultimo.

Nella memoria di chi scrive restano impresse, su tutte, 3 edizioni di quella Coppa. Quella 1983-84 vinta dalla Juventus e quelle 1987-88 e 1997-98 in cui rispettivamente Atalanta e Vicenza sfiorarono la finale ad opera di chi poi quella finale la vinse (i belgi del Malines a Strasburgo nel 1988, il Chelsea a Stoccolma 10 anni dopo).

Dunque, stagione 1983-84. La Juventus si presenta ai nastri di partenza della Coppa delle Coppe dopo aver sfiorato la Coppa dei Campioni ad Atene qualche mese prima, e in attesa di riprovarci l’anno dopo. E’ la Juve dei campioni del mondo dell’82, di Platini-Boniek in avanti e Trapattoni in panchina. Nel primo turno i bianconeri sommergono di reti i malcapitati polacchi del Danzica, quindi passano solo per differenza reti il turno col Paris St.Germain (2-2 a Parigi, 0-0 in casa). Nei quarti sono i finlandesi del Valkeakosken Haka ad arrendersi: 0-1 fuori casa (con un gol allo scadere di Vignola che io, febbricitante a letto, potei seguire a dispetto dei soli primi tempi permessi dai genitori in tempi ordinari di scuola), altrettanto a Torino. La semifinale è in realtà una finale anticipata. Nel campo del Manchester United, che in tv pare davvero immenso, finisce 1-1. Al ritorno, la Juve si impone 2-1 e vola a Basilea (Svizzera) per la finale contro il Porto. E’ il 16 maggio 1984, e c’è ancora luce quando, alle 20.15, inizia la partita. La Juve è in gialloblu. E’ favorita, ma non vuol dir nulla perché lo era anche lo scorso anno ad Atene. Le reti, tutte nei primi 45 minuti: l’ottimo Vignola prima, il capitano portoghese Sousa poi, quindi una perla di “Zibì” Boniek a fine primo tempo. La seconda frazione è di controllo, poi il fischio finale e gli juventini con la Coppa a bordo-campo. Per un 12enne tifoso di “quella” Juve tutta ordine e disciplina, oltre che bravura tecnica, è una bellissima emozione.

Stagione 1987-88. L’Italia è rappresentata dall’Atalanta di Garlini, Cantarutti, Nicolini e Stromberg. E’ una buona squadra, e i primi 2 turni contro una squadre gallese prima e greca poi sono superati senza patemi. Ai quarti, il temibile Sporting Lisboa cede 2-0 a Bergamo, per poi non riuscire a ribaltare il risultato in Portogallo (1-1). Il sorteggio delle semifinali accoppia i bergamaschi con la squadra sulla carta meno forte: il Malines. Al loro esordio assoluto in Europa, i belgi giallorossi piegano l’Atalanta 2-1 in casa. E’ da pochi giorni passata la Pasqua 1988, e quella partita trepidamente seguita in tv a Milano con mio cugino lascia aperta la speranza. Inconsciamente, il cammino dell’Atalanta in Coppa serve forse a parziale consolazione a chi scrive per la prematura scomparsa dagli schermi di “Indietro tutta”, la geniale e mai abbastanza rimpianta trasmissione satirica di Arbore-Frassica. Un rigore di Garlini, nel match di ritorno, proietta sul momento i bergamaschi di Mondonico in finale. Due reti del Malines nella ripresa spezzeranno i sogni nerazzurri. Grazie lo stesso.

Infine, il Vicenza (stagione 1997-98). Nel 1997 i biancorossi di Guidolin vincono la loro prima (e finora unica) Coppa Italia. Dai sedicesimi ai quarti di finale della successiva Coppa delle Coppe la squadra veneta asfalta senza pietà gli avversari di turno, che poi tanto sconosciuti non sono (Legia Varsavia, Sachtar e Roda). Pure la semifinale d’andata, contro i forti inglesi del Chelsea di Vialli e Zola, sorride al Vicenza (1-0). A Londra, tuttavia, dopo pure essere andata in vantaggio la squadra veneta subisce 3 reti (quello decisivo a 14’ dal termine) e lascia a testa alta una competizione comunque da incorniciare. Per una outsider, è l’ultima favola del secolo, prima del nuovo. A cui né lei, né la stessa Coppa della Coppe, approderanno mai.

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