30 anni fa fra teatri e stazioni...7/2/2019

Memoria per 30 anni fa fra teatri e stazioni...

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30 anni fa fra teatri e stazioni...7/2/2019

di Francesco Alessi

L'odore di zagara e ciclamino. La "Verdura" di Palermo non tradisce mai. Sempre si presenta ai suoi ospiti così. E poco importa se abituali o meno. Se dalla parte del pubblico o sul palcoscenico. Le maschere con la fronte imperlata di sudore intente a distribuire il pubblico e i miei genitori sulla scena. Abituato ad una presenza discreta vedi il mondo dietro le quinte e sai che quelle notti da solo arrivare a tuo padre o tua madre è un favore concesso da qualcuno. E nulla avrebbe fatto presagire 10 mesi prima quando avevo fatto il mio primo libretto di lavoro, che quella estate del 1990, con la gente intenta a commentare il rigore di un immigrato bergamasco Claudio Paul Caniggia, sarebbe stata quella del mio primo vero palcoscenico. Un doppio, in realtà. La "Czarda"e "Il Paese dei Campanelli". La divisa da guardia ungherese e i dialoghi in scena dove tra una finzione e l'altra conosci Lauretta Masiero o Lando Buzzanca o Gianni Agus. E con te ci parlano davvero in quel momento. Anche se in realtà è una bugia. È falso, recitano. Sei solo l'ultimo dei pivelli... come te sono in tanti a dividersi la scena. E gli applausi non li dividono con te. Con il coro, sicuramente. La veste mi aggrada nella notte di Palermo. Perfino il sindaco Orlando al suo primo mandato inciampa su di me. Ha fretta, come sempre. Qualcuno lo aspetta. Del resto quando mai il "Massimo" non attraeva la politica. Serbatoio di voti e di figure illustri. Il centro della scena e le maschere che indirizzano le persone, poi le luci puntate addosso che eliminano tutto. Perché quando le luci le hai addosso il pubblico non lo vedi. Lo senti, senti quegli applausi. Magari agli altri non a te. Dietro le quinte o sul palco che tu sia figlio o comparsa gli applausi non ti riguardano. Il balletto ungherese venuto apposta da Budapest. E non ci avranno quasi nemmeno creduto che stavano andando in Occidente senza i passaporti. Bellissime nei loro costumi. Le comparse più grandi di me finivano con il dividersi le ballerine tra un tempo e l'altro. Ungheresi, giovani, biondissime e belle. Disinibite e gentili. Anche un biondo come Angelica si spaccia per latin lover. Sto con gli altri e ascolto Eagles per la prima volta. Una folgorazione. Durerà per sempre. Questa era la scena iniziale, il proemio di quel primo viaggio interrail destinazione Spagna. Una parziale delusione. Come tutte le cose che aspetti per troppo tempo. Come tutte le cose di cui ti godi l'attesa mentre ti dedichi a fare altro in attesa che accadano. Quei 17 giorni dell'estate 1990, il mio primo interrail, non erano stati come quei 20 giorni di lavoro in mezzo alle scene. E, per quanto gli scenari fossero indimenticabili, la Spagna post-franchista e i calci presi da una polizia ancora poco democratica, oltre che la compagnia, non avevano superato quella gioia di attendere. Tra le zagare e i gelsomini, quel consueto e sicuro abbraccio di tuo padre e tua madre. Così, anche se per poco. Anche se solo per un minuto, magari grazie a una maschera che volge lo sguardo al cielo per non vedere che stai entrando. Privilegio per pochi. Altro che le ferie in Spagna.

 

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