Musica e politica - Inni nazionali, corpi militari e... boy-scout10/4/2024
Musica e politica - Inni nazionali, corpi militari e... boy-scout10/4/2024
di Giovanni Curatola
Si troverà pure dalla parte sbagliata della storia (anche se da quella giusta dei gasdotti), ma Putin un merito, considerevole e universalmente riconosciuto l’ha avuto: ridare dignità e fama a quello che, almeno a modesto parere di chi scrive, è l’inno nazionale più solenne, marziale e musicalmente esaltante (in un aggettivo: più bello) fra quelli attuali. La melodia, scritta nel 1938 da Sergej Michalkov sulla composizione di Aleksandr Aleksandrov per il Partito Bolscevico (di cui diventò l’inno), fu elevata a rango di inno nazionale (o meglio, inno delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) nel 1944 da Stalin. Sciolta l’U.R.S.S. nel 1991, i singoli stati che la componevano adottarono da lì in poi propri nuovi inni nazionali. La Russia scelse un piuttosto anonimo “Canto Patriottico”, poco coinvolgente al punto che gli atleti russi a tutte le manifestazioni sportive del decennio 1991-2000 lo cantavano o di malavoglia o non lo cantavano affatto. Se ne accorse Putin in occasione delle Olimpiadi di Sydney del 2000, che così tagliò corto in risposta a chi gli suggeriva di indire un concorso ad hoc per un nuovo inno nazionale russo: “Ma l’abbiamo gia!”. Rispolverato e opportunamente limato nel testo da ogni riferimento bolscevico, il vecchio inno sovietico tornò così a nuova gloria, impresa enormemente facilitata dal fatto che quelle note fossero già familiari e gradite alla popolazione russa, di ogni generazione.
L’episodio citato solleva adesso un tema: un brano, specie se famoso al punto da entrare nel patrimonio culturale di tutti, può essere serenamente valutato sotto il profilo squisitamente musicale, prescindendo dal periodo storico, dal contesto e dal colore politico in cui è nato? O tali etichette si vogliono connaturate e appiccicate al punto da renderne impossibile qualunque tentativo di smarcamento? Si può, in altre parole, canticchiare o quantomeno ascoltare ed apprezzare la “Panzerlied” tedesca, lo “Chant du diable” delle SS francesi, o altri bellissimi canti della seconda guerra mondiale, senza essere tacciati di filo-nazismo o di nutrire simpatie per i campi di concentramento? Si può restar fuori dalla perenne, ossessiva e stucchevole diatriba fascismo-antifascismo se si balla “Bella ciao” (brano peraltro mai cantato durante la guerra civile del 1943-45, ma che il Festival di Spoleto del 1964 ha preteso divenisse la colonna sonora di una Resistenza nata e morta 20 anni prima) o quantomeno se ne riconosce la gradevole orecchiabilità ? La “cancel culture” non concorda, l’ignoranza poi fa il resto. Parecchi sono i brani di musica leggera degli anni ’30 caduti nel dimenticatoio perché bollati come “fascisti”, che per il loro spessore meriterebbero invece una rivalutazione sia sotto l’aspetto prettamente melodico che testuale, non ultima la fertilissima innodia esotico-sentimentale suscitata dalla guerra italo-etiopica del 1935-36… Fa moderatamente eccezione l’ambito militare, dove brani anche di tempi che si vogliono cancellare, comunque considerati capolavori nel loro genere, sono sopravvissuti ai tempi nostri e riproposti nelle cerimonie di rilievo o in versione strumentale o con testi riadattati (inno dei Lagunari, inno dei Sommergibili, alcuni canti della Folgore, degli Alpini, ecc.). Anche gli scout o improvvisate comitive strimpellano oggi sotto la luna con la chitarra, senza saperlo, cori che furono della Decima Mas, ma il fatto di esserne eventualmente coscienti quanto poco toglierebbe alla loro spensieratezza? La celebre “Rosamunda” era diventata quasi la colonna sonora dei campi di sterminio tedeschi e polacchi: non “bollato” come nazista, il brano è oggi riproposto con tutta la sua carica di allegria ad ogni festa popolare tedesca, al pari della “Hohenfriedberger Marsch” e di qualche altra vecchia marcia prussiana, che nelle ricorrenze militari pubbliche ancora risuona maestosa nell’aria senza alcuna pretesa secessionista o rimpianti passati. Le feroci repressioni e gli aspetti sanguinari del regime di Mosca tolgono forse lucentezza all’altissimo profilo di musicisti sovietici o dell’orchestra dell’“Armata rossa”? O suscitano brividi solo nei "compagni"? Ascoltare o eseguire “Kalinka”, “Katjuša” o “L'addio della Slava” fornisce una patente di nostalgia per un regime perduto? Apprezzare l’Inno del Regno delle Due Sicilie o qualche gradevole motivo austriaco in voga nel vecchio Lombardo-Veneto asburgico, equivale forse a rimpiangere l’Italia dis-unita pre-1861? “Propaganda nazista? – dirà il generale inglese Montgomery riferendosi alla canzone tedesca "Lili Marleen", scagionandone così la cantante originaria, Lale Andersen - Ma se i miei soldati, quando nel deserto davamo la caccia a Rommel, dopo le fatiche, le battaglie, la sete e il sole, la sera avevano solo il conforto di quella canzone..!.”.
Ogni musica, purché di indiscusso valore, è prima o poi destinata ad affrancarsi dagli ambiti storici e politici in cui è nata, un po' come un figlio che cresce e lascia la casa paterna per andare in giro per il mondo. E continuare ad etichettarla politicamente, per esaltarla o demonizzarla a seconda degli obiettivi prefissati, è come costringere questo figlio che cresce a non uscire mai di casa. All’estero lo hanno capito (come tante altre cose) prima di noi, e rinnovano, con successo, molte loro vecchie sonorità. In Francia, riproposizioni dei canti rivoluzionari coesistono con quelli contro-rivoluzionari della Vandea senza il minimo problema. In Italia, patria di campanilismi e divisioni, un buona aliquota di produzione musicale d'epoca di valore giace invece in vecchi spartiti, semi-ammuffiti negli scaffali di Biblioteche di Stato e di qualche Conservatorio. Una lodevole iniziativa in tal senso la compì qualche anno fa il compianto Paolo Limiti, che anteponendo il concetto di italianità alle singola fazione politica, si spinse perfino a riproporre “Faccetta Nera” in tv. Ma non risulta che nessuno, nell'occasione, indossasse una camicia nera…
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