Pavolini l'inflessibile. Nel bene e nel male...18/8/2020

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Pavolini l'inflessibile. Nel bene e nel male...18/8/2020

di Giovanni Curatola

Inflessibile nel bene e nel male. Sempre e ovunque. Tanto nella sua fede politica (segue Mussolini dalla Marcia su Roma a Piazzale Loreto) che nella spietatezza e nella ferocia usata contro i partigiani durante la RSI, che nell’onestà comprovata nelle tante attività e cariche pubbliche ricoperte, dove pure si riduce spesso gli emolumenti. Alessandro Pavolini è durante il ventennio giornalista, scrittore, vice-federale e poi federale di Firenze, deputato alla Camera e ministro della Cultura Popolare, poi a Salò segretario del Partito Fascista Repubblicano e capo delle Brigate Nere. Personalità colta (2 lauree), raffinata, giornalista e scrittore brillante (fonda alcune riviste, collabora a diversi quotidiani fra cui il “Corriere della Sera” ed è autore di romanzi tradotti anche all’estero), Pavolini è anche esperto di teatro e di poesia. Figlio della medio-alta borghesia fiorentina, è stimato (e invidiato) all’interno del regime, piace alle donne ed è amico di tanti antifascisti e di numerosi ebrei. Un carattere tanto aperto, pacifico e conciliante che si ribalterà completamente con la caduta del regime, che ne segnerà profondamente il cambio d’umore e il carattere.

E’ deluso sia dai gerarchi che il 25 luglio 1943 sfiduciano Mussolini dopo aver potuto costruire sotto la sua ombra luminose e ben retribuite carriere, e soprattutto profondamente disgustato dalla massa che si era professata fascista fino al giorno prima solo per tornaconto, fin quando cioè dal regime aveva ricevuto vantaggi e benefici. Ora Pavolini vede la gente demolire i simboli del fascismo e orinare sugli stessi ciondoli e sulle stesse divise che aveva portato con zelo e orgoglio per vent’anni. Per questo non crede più negli uomini e si chiuse a riccio, tanto che la nascita della RSI lo trova interamente mutato: l’odio, il rancore e il disprezzo per il voltafaccia generale del 25 luglio e dell’8 settembre prendono in lui il posto dell’affabilità, della fiducia, del buonumore. “Dopo l’8 settembre abbiamo imparato a conoscerci” scrive diffidente alla massa. Così l’uomo che, da federale, aveva dato alla “sua” Firenze la stazione ferroviaria S. Maria Novella, l’autostrada Firenze-mare, lo stadio comunale, il circuito automobilistico del Mugello e il “Maggio musicale fiorentino”, dopo essersi rifugiato in Germania al crollo del regime diventa con la nascita della RSI il n.2 del fascismo di Salò. Berretto nero a bustina con visiera delle Brigate Nere, felpa altrettanto nera con zip anche d’inverno, senza soprabito, mitra a tracolla e sguardo spesso truce: sarà questo il Pavolini della RSI: uomo meno intellettuale e più d'azione.

Esasperato dai continui attentati partigiani, che falcidiano alle spalle centinaia di suoi camerati, nel 1944 decide di rendere pan per focaccia e istituisce la Brigate Nere, braccio militare del Partito che, quanto ad efferatezze e crudeltà, non sarà affatto da meno dei partigiani che combatte. Pavolini è contrario al richiamo alle armi, non vuole traditori o potenziali disertori fra i piedi. Chiede che “la guerra sia combattuta solo dai migliori, da chi crede nella causa. Gli altri stiano a casa, alla fine faremo i conti”. Nella “sua” Firenze organizza i franchi tiratori. Convinti di avere vita facile dopo la presa di Roma e dopo l’evacuazione delle truppe italo-tedesche da Firenze, i “liberatori” entrano in città, ma un inaspettato uragano di fuoco li attende. Sono le fucilate di oltre 300 cecchini fascisti che dai tetti, dai comignoli e dai campanili gli sparano rabbiosamente addosso. La battaglia infuria 7 giorni, e resterà la resistenza più accanita riservata ad Alleati e partigiani, tanto che, nel dopoguerra, un generale americano a cui gli verrà chiesto quale città italiana amasse di più, risponderà: “Firenze, perché è l’unica città dove gli italiani hanno avuto il coraggio di spararci addosso”. Nel frattempo Galeazzo Ciano, genero del Duce e firmatario dell’ordine del giorno che aveva decretato la fine regime, è stato condannato a morte dal tribunale voluto dai tedeschi e giustiziato. Era stato Pavolini ad impedire che la domanda di grazia giungesse a Mussolini.

La mattina del 26 aprile 1945, quando gli alleati dilagano ormai indisturbati nella Pianura Padana l’insurrezione è in atto, è alla testa della colonna di 5.000 fascisti che lascia Milano per raggiungere Mussolini a Como, e proseguire con lui per la Valtellina. Il suo piano, romantico, è chiudere lì, su quei monti “ultimo sorriso della patria”, la pagina del fascismo repubblicano. A Como il Duce però non c’è (erroneamente e consigliato si è spostato a Menaggio) ed è lo sfacelo della colonna di Pavolini e di quelle che lì stanno convergendo da tutto il Nord Italia. Pavolini prosegue lo stesso, incontra il Duce promettendogli di tornare in serata con 30.000 camicie nere per proseguire verso la Valtellina. Tornato a Como, ha però l’ultima delusione della sua vita, la più cocente. Approfittando della sua assenza, Romualdi e le altre autorità fasciste hanno pensato bene di fermarsi lì e trattare la resa con fantomatiche (e pressoché ancora inesistenti) forze partigiane. Quasi nessuno vuole rischiare la pelle nell’ultimo quarto d’ora di guerra. Lo sbandamento e lo squagliamento sono pressoché totali, i nervi di tanti militi, già provati dalla situazione generale, cedono. Il sogno dell’ultimo ridotto in Valtellina svanisce. Imprecando contro tutto e tutti, Pavolini taccia di tradimento i suoi subalterni per aver trattato col nemico all’insaputa di Mussolini. Gli sputa in faccia con disprezzo; “Qui gli ordini li deve dare soltanto il Duce! Che schifo!” e ritorna a Menaggio. Sa bene di firmare così la sua condanna a morte, ma non vuole lasciarlo solo, almeno lui.

La sua amante Doris Duranti, la diva più bella degli anni ’30, vuole condividerne la sorte, ma lui le affida una valigetta dicendole che dentro ci sono documenti importantissimi che devono essere messi al sicuro all’ambasciata di Lugano. La fa così fuggire in Svizzera, ma giunta a Lugano l’attrice apre la valigetta trovandoci dentro solo questo biglietto: “Grazie per il tuo amore e la tua fedeltà. E’ stato per il tuo bene. Sandro”. Il “poeta armato”, il “Robertspierre del fascismo” (com’è chiamato Pavolini per il suo spessore intellettuale nel primo caso e per la sua incorruttibilità nel secondo) ha salvato così la vita alla diva più famosa del tempo. Vita che lui perderà, invece, sul lungolago di Dongo, insieme ad altri 14 gerarchi, il pomeriggio del 28 aprile. Avrebbe dovuto esserci anche Mussolini con loro, ma poco più giù, a Bonzanigo, dov’è stato portato nottetempo con la Petacci, qualcosa tra le fila partigiane va storto e il capo del fascismo è liquidato lì stesso, poche ore prima. Il corpo di Pavolini penzolerà così accanto a quello del suo capo, l’indomani mattina a Milano, dal distributore di una pompa di benzina di piazzale Loreto. Suggello, al di là di ogni giudizio politico, di una coerenza che, comunque la si voglia vedere, ha sempre voluto e saputo mantenere in vita.

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