MIO PADRE: UFFICIALE E GENTILUOMO

24 dicembre 2017

di Cristina Perilli

Mio padre non era bello come Richard Gere in "Ufficiale gentiluomo", ma era un ufficiale e un vero gentiluomo.
Quando mia madre lo conobbe, prestava servizio come ufficiale medico nell’aereonautica militare.
A quei tempi un uomo, per uscire con una ragazza, doveva chiederne il permesso ai genitori.
Così fece mio padre.
Per andare a parlare con i futuri suoceri, decise di indossare la divisa da ufficiale.
“La divisa dà sempre un’immagine di affidabilità” si disse. In realtà l’acquisto di un vestito nuovo era un lusso che non poteva permettersi.
Con il piccolo capitale che aveva risparmiato per mesi, comprò un bouquet di fiori per mia nonna, una scatola di sigari per mio nonno e una confezione di cioccolatini per tutta la famiglia. S’incamminò quindi verso casa di mia madre sperando di celare timidezza e paura del rifiuto, dietro l’austera ed elegante uniforme. Lungo la strada continuò a ripetere mentalmente il discorso che aveva scritto e riscritto un numero infinito di volte prima di esserne soddisfatto e sperava potesse essere ora così convincente da fargli ottenere il sospirato sì.
Ed eccolo davanti alla porta di casa dei miei nonni: si ferma un attimo, prende fiato, si guarda riflesso nel vetro di una finestra e si sente un po’ impacciato con quel mazzo di fiori tra le mani ed il sacchetto con i doni. Ancora un respiro profondo poi suona il campanello.
I genitori di mia madre erano contadini benestanti. Nati alla fine dell’Ottocento avevano quei modi riguardosi e contemporaneamente un po’ rudi delle persone di campagna.
Lo fecero accomodare in salotto e passarono velocemente dai convenevoli, alle domande dirette: “Che intenzioni ha con nostra figlia? Cosa le può offrire?” gli chiesero sorseggiando il caffè, ma con gli occhi fissi su di lui. Il tono gentile delle domande mal celava l’obiettivo di sapere quanto guadagnasse e se fosse in grado di mantenere la futura moglie dignitosamente.
Mio padre si era preparato bene le risposte e sembrò averli convinti perché mio nonno lo accompagnò alla porta e, stringendogli la mano, gli concesse quel permesso tanto desiderato.
Mia nonna sospirò e guardò con affetto la figlia.
“Quel ragazzo è magro come un gambo di sedano ed ha un naso così lungo che se era pecora non brucava!” le disse. “Però è un vero signore e sarà in grado di renderti felice” aggiunse dandogli la sua benedizione.
Il divertente paragone con la pecora è diventato famoso nella nostra famiglia ed ogni tanto lo ricordiamo ridendone affettuosamente; ci piace anche “riciclarlo” quando vogliamo sottolineare le dimensioni del naso di qualcuno.
“È stato proprio il modo in cui vostro padre viveva ogni circostanza, comportandosi da vero gentiluomo, a conquistarmi” ci diceva mia madre. “Chiunque lo incontrava restava colpito dai suoi modi impeccabili”.
Il fascino di mio padre proveniva, oltre che dai modi impeccabili, dalla sua immensa cultura e dal sacro rispetto che provava per le donne. Anche il modo in cui parlava della sua professione lo rendeva “speciale”. Fare il medico per lui non era un lavoro, era una “missione”, qualcosa che aveva scelto sin da bambino e che esercitava con grande competenza, onestà e dedizione. Amava occuparsi dei suoi malati e questi provavano per lui profonda gratitudine. Dopo quindici anni dalla sua morte, mia madre riceve ancora regali e commoventi lettere di pazienti cui aveva salvato se non anche la vita, almeno la voce o l’udito (era un otorinolaringoiatra).
Mio papà era però anche un uomo introverso e severo che incuteva timore.
“C’è tuo papà?” chiedevano gli amici invitati a pranzo a casa nostra. In caso di risposta affermativa, improvvisamente rammentavano impegni inderogabili presi in precedenza.
Davanti a lui era facile sentirsi in soggezione, succedeva quasi a tutti, ma non a mia madre, consapevole dell’immenso amore che egli provava per lei.
Era qualcosa più dell’amore, era una sorta di venerazione che rendeva mia madre il centro del suo universo. Tutto ciò che era importante per lui, lo era in quanto parte del mondo che ruotava intorno a sua moglie, il resto non contava.
Lei ne era consapevole e ne approfittava con comportamenti capricciosi e a volte dispotici.
Sebbene bizzosa, mia mamma era comunque una donna fuori dal comune.
Pur essendo cresciuta in un piccolo paese di campagna, circondata da semplici contadini, per quelle strane evoluzioni della vita, aveva sviluppato un’intelligenza vivace e poliedrica e la capacità davvero eccezionale di essere sempre all’altezza di qualsiasi situazione.
Moglie di un medico e professore universitario era spesso invitata col marito (ed a loro volta invitavano) a cene di primari, accademici e persone di grande cultura. Le ricordo le tavolate in casa nostra.
A noi bambine la cena veniva preparata in anticipo; poi dovevamo stare buone in camera nostra a giocare fino all’ora di andare a dormire. I “grandi” arrivavano portando fiori, vassoi di pasticcini e bottiglie di vino. Noi sbirciavamo dalla porta ed ovviamente le nostre simpatie si concentravano sui “portatori di dolci”. Prima di iniziare a cenare con gli ospiti, mia mamma ci veniva a prendere in camera.
“Venite bambine, venite a salutare, poi andate in cucina a prendere un dolcetto” ci diceva.
Timide ed impacciate, spingendoci l’un l’altra avanzavamo in sala ad affrontare quei professoroni che ci davano odiosi buffetti sulle guance e le loro sofisticate mogli che ci baciavano. Di quei noiosi convenevoli ne avremmo fatto volentieri a meno. Ancor più volentieri avremmo rinunciato a quei baci che lasciavano sulle nostre guance appiccicose tracce di rossetto che solo gli sguardi fulminanti di mia mamma ci impedivano di pulire immediatamente con la mano. Ma la ricompensa che ci attendeva in cucina ben valeva il sacrificio.
“Buonasera…” cantilenavamo a ripetizione rivolte a ciascun ospite.
“Ma come siete cresciute… state diventando sempre più belle…” rispondevano pronunciando un’evidente immensa bugia.
Una foto appesa a casa dei miei nonni, ci ritrae bambine in posa per la classica “foto ricordo” ed è diventato ormai un gioco per noi sorelle mostrarla agli amici per ascoltare divertite i loro commenti.
“Beh, di certo belle non eravate…”. “Immagino tua mamma avesse scritto sotto la foto che ogni scarafone è bello a mamma soja…”. “Siete voi sorelle? Ma allora il proverbio brutte in fasce, belle in piazza dice il vero!” è il commento di chi, non potendo mentire di fronte all’evidenza, vuole comunque uscirne da gentleman.
In realtà la più piccola di noi era una bambina bellissima, ma si notava poco se fotografata insieme alle sorelle maggiori che sembravano rubate alla famiglia degli Addams.
A queste pompose cene mia madre, con le sue origini contadine e gli studi terminati in terza media, si rivelava sempre una perfetta e adeguata padrona di casa. Preparava tavole imbandite con un’eleganza che nulla aveva da invidiare alle cene cui era a sua volta invitata, i cibi da lei cucinati ricevevano complimenti rimarcati dalle richieste di numerosi bis e non c’era conversazione cui non partecipasse mostrandosi brillante ed acuta.
Era inoltre una donna di una bellezza che neppure la vecchiaia riuscì ad offuscare.
Non stupisce che mio padre se ne innamorò immediatamente.
Lei forse non lo amava con simile intensità, ma di certo ne aveva una stima infinita e lo aveva scelto. Una scelta non sostenuta dalla passione, ma da un’istintiva consapevolezza che era l’uomo giusto per lei ed il padre migliore che si potesse desiderare per dei figli. Capì subito che era il compagno ideale con cui trascorrere tutta la vita senza avere mai ripensamenti o indecisioni.
Così è stato, per entrambi, fino alla fine.
Mio padre si chiamava Orlando, mia madre Angelica: uno strano scherzo del destino aveva unito due personaggi appartenenti alla letteratura classica, in una coppia appartenente alla storia moderna.
“Vi dichiaro marito e moglie finché morte non vi separi” nel 1955 con queste parole Orlando e Angelica erano stati uniti in matrimonio; parole che avevano preso entrambi sul serio.
L’amore immenso di mio padre per mia mamma si era rivelato un’ennesima volta proprio pochi giorni prima che un infarto fermasse per sempre il suo cuore.
“Quando morirò, non voglio essere sepolto a fianco dei miei genitori, ma accanto ai tuoi” disse Orlando una notte prendendo Angelica tra le braccia. “Sono certo tu vorrai essere tumulata vicino a loro ed io neppure da morto voglio starti lontano. Ti aspetterò là per stare insieme per sempre”.
Dopo quest’ultima dichiarazione d’amore, il sabato seguente mentre, seduto sul divano, compilava i suoi amati cruciverba (riusciva a fare anche i più difficili in pochi minuti), mio padre ci ha, lasciato quando nessuno era ancora pronto a dargli l’addio.
A volte me lo immagino abbarbicato su quella sgangherata motoretta che aveva comprato a rate, percorrere chilometri di strada sterrata per andare a trovare mia madre nel piccolo paese in cui viveva. Per poterle rivolgere solo qualche parola, la aspettava ore appoggiato alla grande fontana dove lei si recava a prendere l’acqua.
“Signorina, posso avere il piacere di parlare un po’ con lei?” chiedeva con un timido sorriso.
Angelica amava raccontare questa storia ai nipoti mai sazia di vedere i loro occhi riempirsi di stupore.
“Nonna, davvero andavi a prendere l’acqua alla fontana? Ma come facevate a vivere senza acqua nelle case?” le chiedevano con le loro vocine incredule.
“L’acqua è preziosa bambini miei, non dovete sprecarla” rispondeva la nonna pur sapendo che le sue parole sarebbero volate via senza lasciar traccia. Troppo difficile comprendere quel concetto per una generazione che passa ore sotto la doccia, usa litri d’acqua per lavare un frutto e ne fa scorrere altrettanti prima che sia abbastanza fresca da berne un sol bicchiere.
Angelica e Orlando ebbero la gioia di veder crescere ben otto nipoti.
Molto prima dell’arrivo dei nipotini, la loro vita fu però allietata dalla nascita delle figlie: Aurora, Stefania, Viviana e Paola. Quattro bambine nate a poca distanza l’una dall’altra nei primi anni di matrimonio.

***

Non fu facile per una ragazza poco meno che trentenne, crescere da sola quattro bambine. Con un marito chirurgo, lontano da casa per gran parte del giorno e, a volte, anche per interminabili notti di turni ospedalieri, Angelica diede prova d’incredibile forza e di una grande capacità di inventarsi, giorno dopo giorno, il ruolo e le capacità necessarie per crescere le sue bambine nel doppio ruolo di madre e moglie.
Impeccabile nel ruolo di mamma, lo era meno in quello di compagna di mio padre.
“Vorrei essere importante per te come lo sono le tue figlie” si lamentava mio papà.
Pur amandoci immensamente, Orlando era geloso se mia mamma ci regalava o prestava oggetti che lui le aveva donato.
“Come fai a non capire che io ho comprato quegli orecchini per vederli indossare a te, non alle tue figlie?” le diceva amareggiato ed incredulo.
Avrebbe voluto che la moglie fosse più affettuosa con lui. Quando la prendeva per mano o le passava un braccio intorno ai fianchi, lei invece sembrava a disagio quasi che il contatto fisico in pubblico fosse peccaminoso. Rivedo mia mamma in una giornata di sole con i lunghi capelli biondi e quei meravigliosi denti bianchi e perfetti (rimasti tali anche a ottant’anni), ridere imbarazzata mentre il marito cerca di baciarla. Ricordo lo sguardo orgoglioso di mio papà nel momento in cui lei glielo permise.
Ma lui la amava anche per questo.
“Non vorrei nessuna donna diversa da vostra madre; tornassi indietro, la risposerei mille volte!” diceva quando noi figlie gli facevamo notare i difetti del carattere di Angelica. “Se da grandi diverrete belle solo un decimo di quanto lo è vostra mamma, sarete comunque bellissime” aggiungeva guardandoci con affetto.
Io amavo mio padre, era il mio idolo.
Lo amavo di un amore completo, totale, senza se e senza ma, senza punti oscuri, dubbi, perplessità. Amavo tutto di lui: il suo odore, la sua voce, il suo modo di guardare la televisione, di vestire, di gesticolare, di prendermi per mano, di coccolarmi ed anche il suo modo di fare colazione. Quest’ultimo insignificante particolare è invece uno dei filmati che tengo gelosamente custoditi nella memoria.
Orlando seguiva un preciso rituale per fare colazione: preparava il caffè, ne portava una tazzina a letto ad Angelica e una la versava per lui poi andava a farsi la doccia e a vestirsi. Tornava quindi in cucina, dove versava la sua tazzina di caffè ormai quasi freddo (odiava cibi o bevande troppo caldi) in una ciotola di latte; vi spezzettava dentro quindi del pane raffermo. Mia mamma ha passato la vita a comprargli infinite varietà di biscotti, fette biscottate, gallette e simili. “Orlando sei ridicolo! Non sei più un bimbo povero, puoi permetterti colazioni migliori” gli diceva rimproverandolo affettuosamente. Ma lui continuava col suo pane indurito che lasciva ammorbidire nel latte e caffè.
Il rituale comprendeva una seconda fase: via la sedia, in piedi, una mano sulla cravatta per non farla penzolare pericolosamente in prossimità del caffelatte, si chinava in avanti e mangiava la sua colazione con un grande cucchiaio fino all’ultima briciola rimasta nella tazza.
Io lo guardavo senza perdere un solo particolare.
“Viviana era così innamorata del padre che, seppur piccolissima, la sera, quando lui rientrava dal lavoro, riconosceva il rumore della sua automobile, scendeva dal letto e gattonava fino all’ingresso” sentii raccontare anni fa da mia mamma a un’amica invitata a prendere un caffè. “Appena Orlando varcava la soglia di casa, Viviana faceva capolino da dietro l’angolo affinché suo papà la vedesse. Lui la prendeva in braccio e cenava tenendola sulle gambe”.
Era un ricordo che io non avevo e mi commosse ascoltarla.
“Con nessuna delle altre figlie ha mai fatto questa concessione; per tutte valeva la regola del ‘A letto dopo Carosello e niente capricci!’. Per Viviana no” aggiunse però con tono di rimprovero e disappunto nel terminare il racconto.
Il profondo legame che c’era tra me e mio padre era così evidente che le mie sorelle mi “usavano” per ottenere permessi e concessioni.
“Dai, per favore… lo sai che se glielo chiedi tu, dice di sì”; era questa la preghiera che mi sentivo fare da Aurora e Stefania ogni volta che volevano ottenere il permesso per andare a una festa o per un orario di rientro da ritardare. Le loro richieste mi facevano sentire importante.
Quasi sempre riuscivo a strappare un sì a mio papà.
L’estate, quando le lunghe vacanze degli studenti raramente coincidono con quelle dei genitori che lavorano, Orlando ci portava nel piccolo paese del centro Italia dove era nata Angelica e vivevano i nonni materni; poi ripercorreva la penisola in senso inverso per tornare al lavoro.
Sentivo di lui una tale mancanza che spesso lo sognavo. I miei sogni erano così realistici che mi svegliavo con l’illusione della sua mano che mi carezzava la testa. A volte mi sembrava persino di aver sentito il bacio del buongiorno. Il suo era per me inconfondibile: posato con leggerezza sulla mia guancia era accompagnato dall’inconfondibile odore del suo dopobarba (ha usato sempre lo stesso fino all’ultima rasatura della sua vita). Quando non volevo arrendermi all’idea che fosse stato solo un sogno, mi alzavo cercando mio padre in giro per casa. Arrivavo fino alla grande finestra che si apriva su un panorama di colli e vallate dove la strada incavata nel verde di una piccola montagnola sembrava un nastro avvolto intorno ad un morbido panettone. Cercavo su quel nastro grigio la sua macchina e restavo lì a lungo ad aspettare.
Sono ormai molti anni che Orlando è morto, ma quando penso a lui, sento ancora una stretta al cuore e provo un viscerale senso di vuoto. È come se avessero strappato una parte di me e questa, negli anni, non fosse stata capace di ricrescere. Proprio come accade a chi, amputato di un braccio, continua a sentire la presenza del suo arto fantasma, io sento mio papà, lo cerco ed ogni volta provo il dolore di scoprire che non c’è più.
Non sono una persona religiosa e non sono mai andata al cimitero. Da quando mio papà è morto provo però il bisogno di andarlo a trovare in quel piccolo cimitero di paese dove è sepolto. Entro nella cappella di famiglia che accoglie nonni e zii materni morti negli ultimi cinquant’anni, mi accerto che non ci sia intorno nessuno e faccio lunghe chiacchierate a voce alta con lui.

Tratto da:

Mio padre non era bello come Richard Gere

Maria Cristina Perilli

Europa Edizioni

 

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