I MIEI PATRIARCHI: GIUSEPPE E AROLDO Parte 2

14 maggio 2017

di Paolo Di Mizio

 Appendice 14

I MIEI PATRIARCHI:  GIUSEPPE E AROLDO

Mio nonno Giuseppe, padre di mio padre, era socialista fin dagli anni 1920-1940, quando si pagava un prezzo salato ad essere socialisti. Viveva a Colonnella, paese collinare dell'Abruzzo che si sporge sulla stretta vallata del fiume Tronto e da dove si osservano agevolmente i primi paesi delle Marche. 

Mio nonno era un assiduo propagandista antifascista. Non solo predicava tra i suoi diciotto operai, o meglio i ‘lavoranti’ del suo laboratorio di creazioni in pellame, ma anche tra i contadini di quelle fertili colline. Passava di contado in contado e distribuiva copie dell’Avanti!, il giornale socialista che un tempo era stato diretto da Benito Mussolini (prima della fondazione del partito fascista) ma che a quell'epoca era diretto dall'antifascista Pietro Nenni. La sua pubblicazione e diffusione erano proibite dal regime fascista. 

Ogni tanto i carabinieri coglievano mio nonno in fragranza di reato, ovvero con le copie del giornale nascoste tra i rotoli di pellame con cui andava in giro per le campagne, oppure, quando gli facevano visita a casa,  sotto il materasso del letto, e lo arrestavano. Lo liberavano pochi giorni dopo.

Coi carabinieri mio nonno Giuseppe aveva, suo malgrado, un rapporto di assidua frequentazione. Infatti i militi avevano l'ordine di arrestarlo preventivamente ogni volta che in paese (di solito la domenica) era prevista la visita di un gerarca, un dirigente di partito, un ministro fascista o il vescovo. Il suo nome era nell'elenco dei ‘facinorosi’, le teste calde che si temeva potessero compiere qualche clamoroso atto dimostrativo o addirittura un attentato. Lo arrestavano il giorno prima della visita ‘dell’autorità’ e lo rilasciavano il giorno dopo la sua partenza.

Mi raccontava mio padre che mia nonna teneva sempre pronta una borsa con indumenti di ricambio: camicia, maglia, calzini, mutande. Ogni volta che i carabinieri bussavano alla porta, prima ancora di aprire mia nonna dava la valigetta al marito e gli diceva: "Ciao, Peppino, ci vediamo lunedì. Copriti bene, che fa freddo".

Una volta le cose andarono un po’ diversamente. Era già scoppiata la guerra e giunse all’orecchio del partito fascista che mio nonno nascondesse nella soffitta della sua casa una coppia di ebrei, e forse anche un loro figlio piccolo, non ricordo con esattezza.

Quando arrivò la polizia politica a perquisire la casa,  non trovò alcun ebreo nascosto. Gli ebrei c’erano stati, ma erano già in salvo grazie a documenti falsi che mio nonno aveva loro procurato tramite le sue conoscenze nell’ambiente dei clandestini e dei partigiani.

La polizia politica non scherzava. Non erano carabinieri di paese. Portarono mio nonno in caserma e lo interrogarono con i loro metodi. Torture alla  buona, eh, pugni e schiaffi, qualche calcio in faccia: non si era ancora inventato il water-boarding. Alla fine dovettero rilasciarlo, perché non aveva confessato e loro non avevano alcuna prova, neppure un indizio serio, soltanto una flebile spiata di paese.

Mio padre, Vincenzo Ivo, studiava medicina e allo scoppio della seconda guerra mondiale fu arruolato nell'esercito come sottufficiale di sanità. L'8 Settembre del 1943 Badoglio annunciò a sorpresa l'armistizio separato dell'Italia con gli anglo-americani. La Germania reagì rabbiosamente ordinando alle sue truppe di disarmare l'esercito italiano e di occupare il Paese. Quel giorno mio padre abbandonò la divisa, risalì mezza Italia a piedi e si unì ai partigiani della formazione ‘Indipendente’, che operavano nelle province di Teramo e di Ascoli Piceno, a cavallo di Abruzzo e Marche. Dopo la guerra fu insignito di una croce di ferro al valore militare.

Nella mia famiglia paterna, antifascista, nessuno ha mai odiato i fascisti. Avversavano l'ideologia, non le persone. Lo stesso può dirsi della mia famiglia materna, ma a parti invertite.

La mia famiglia materna era fascista. Il nonno di mia madre, il mio bisnonno, si chiamava Aroldo Fornasari ed aveva partecipato alla marcia su Roma. Era nativo del bolognese. Abitava a Pieve di Cento, un paese ad economia agricola ai confini con la provincia ferrarese. 

Il mio bisnonno Aroldo era cresciuto in quelle campagne fertili, che erano umide e fredde d'inverno, umide e calde d'estate. Era venuto su un pezzo d’uomo. La sua forza fisica era leggendaria in tutti i paesi del circondario. Era il campione incontrastato delle gare di braccio di ferro che la domenica riunivano i contadini, i manovali e tutti i giovani robusti e di belle speranze. Gli uomini più forti della zona, che fossero di Cento, di Castello d’Argile, di Budrio o di ogni altro comune tra il bolognese e il ferrarese, venivano alla Pieve per tentare di battere il mio bisnonno a braccio di ferro. Le gare si disputavano nelle osterie, con l’aria profumata dalle esalazioni del lambrusco, del sangiovese e del fragolino.

Il mio bisnonno Aroldo amava la giustizia sociale. Era generoso. Era caritatevole. Aiutava i deboli e i poveri. Era un uomo d’onore.

Era stato socialista anche lui, iscritto al partito. Ma quando Mussolini ne uscì e fondò il partito fascista, il mio bisnonno lo seguì in quell’avventura. Per quale ragione esattamente non so. Forse per il fascino magnetico che Mussolini esercitava. O forse perché era imbevuto degli insegnamenti della Chiesa, che in quelle zone aveva un vasto ascendente sulla popolazione. I preti all’epoca insegnavano una religione alla buona, fatta di valori tradizionali e di conservatorismo. E insegnavano che i comunisti erano atei mangiapreti.

Quando venne l’ora, mio bisnonno partecipò alla marcia su Roma. Si trattava di salvare l’Italia, così gli avevano detto,  dalla rivoluzione dei ‘rossi’ e dall’anarchia. Fatta che fu la marcia, se ne tornò al paese, dove l’aspettavano moglie e sette figli, e riprese a lavorare.

Da ragazzo Aroldo era stato un manovale edile ed era poi diventato un abile capomastro, molto richiesto Aveva buon cervello e ben presto si era messo in proprio come costruttore, acquistando un notevole benessere economico. Anzi, per dirla chiara, diventò uno degli uomini più ricchi del paese.

Il benessere era tanto che il bisnonno arrivò a possedere anche un grande emporio di materiali edili che vendeva le merci a tutti i costruttori dei paesi vicini. A controllare il negozio tutto il giorno stava sua moglie, la mia bisnonna, che presiedeva al negozio e al governo della casa.

 La mia bisnonna, una donna dal fisico minuto, religiosissima, provvedeva anche alla carità. La domenica (ma spesso anche nei giorni infrasettimanali) regalava ai bisognosi sacchi di cemento, scatoloni di piastrelle in ceramica, partite di mattoni, legname da costruzione, e ogni altro ben di Dio. Alle donne che andavano a trovarla, regalava sacchi di grano, di frutta o di noci.

In paese si sparse ben presto la voce di tanta generosità, così anche molte persone che non erano propriamente bisognose andavano a farsi consegnare ‘la carità’. Un piccolo bengodi, insomma. Mio bisnonno borbottava, si lamentava con la moglie, diceva che esagerava con la carità, che tutta quella roba era guadagnata con il sudore della fronte e che non la si poteva dare via così, a piene mani. Ma alla fine la lasciava fare.

Aroldo un giorno si fece convincere da un amico a investire una fortuna nella costruzione e gestione di un teatro lirico. È ancora oggi l’unico – e bellissimo – teatro di Pieve di Cento, fonte di orgoglio cittadino, nella piazza al centro del paese. Quando il teatro fu terminato, cominciarono le prime rappresentazioni di concerti e opere, alle quali accorreva gente da tutti i paesi dei dintorni, perfino da Bologna e da Ferrara. Il mio bisnonno costruttore era dunque divenuto anche impresario teatrale. Gli piaceva l’opera, ne aveva una gran passione, come molti a quel tempo.

Il denaro dell’impresa di costruzioni, del commercio di materiali edili e del teatro scorreva come un fiume, ma lo amministrava l’amico del mio bisnonno. Che tanto amico non doveva essere. Un giorno infatti scomparve, dopo aver intascato gli incassi della stagione teatrale e dopo aver svuotato tutti i conti correnti del mio bisnonno. Pare fuggisse all’estero – si disse in Francia, ma nessuno lo sapeva con certezza – sotto falso nome. Fatto sta che fece perdere le sue tracce. Ancora oggi a Pieve di Cento nessuno sa dire che fine abbia fatto l’amico-truffatore del mio bisnonno. Sarà già morto da oltre mezzo secolo, suppongo, chissà dove.

Aroldo si trovò quasi senza più nulla delle sue fortune, ma aveva ancora il suo lavoro di costruttore. Vendette il teatro per pagare i conti che doveva saldare per l’acquisto dei materiali edili, e chiuse il negozio.

Era intanto scoppiata la guerra. Alla fine della guerra, quelle zone del bolognese, del ferrarese, del modenese, della Bassa e tutte le altre che erano state la culla del fascismo, divennero comuniste. Si aprì la caccia al fascista. E anche la caccia al prete.

Un giorno – era da poco finita la guerra – il mio bisnonno percorreva una strada di campagna sulla sua motocicletta rossa, quando vide due giovani del paese, forse due ex partigiani, che stavano pestando un prete. Saltò giù dalla moto, prese i due giovani, li sollevò da terra e li riempì di pugni, come se quello fosse il set  di un film western e non, come era,  una campagna di quelle adatte a Peppone e don Camillo. Alla fine, malconci, con le labbra spaccate e i nasi sanguinanti, i due uscirono dal fosso dove il mio bisnonno li aveva scaraventati e si allontanarono, imprecando e maledicendo. Il bisnonno Aroldo aveva allora più di 60 anni d’età, ma la forza non l’aveva abbandonato.

Aiutò il prete ad alzarsi. “Grazie, Aroldo, che Dio vi benedica. Senza di voi, sarei morto” disse il sacerdote. “Padre, andate mo’ a casa e girate poco. È pericoloso. Questi non son tempi per un brav’uomo per girare in paese, né in campagna” disse Aroldo, e aggiunse: “Se poi quei due giuvanutin vengono a darvi ancora fastidio, voi fatemelo sapere, ve’”. I due giovanottini pare che per il resto della loro vita cambiassero strada ogni volta che incontravano il mio bisnonno in paese. Per paura o per vergogna, o per entrambe le cose. Però l’episodio della difesa del prete e del pestaggio dei due ‘rossi’ circolò ampiamente nei paesi della zona. Se ne parlò a lungo.

Un po’ per questo, un po’ per la sua mai ripudiata adesione al partito fascista, e un po’ sicuramente perché la sua ascesa economica aveva destato molte invidie in paese, il bisnonno Aroldo in poco tempo rimase senza lavoro. Era un abile costruttore, capace e affidabile, ma nessuno lo chiamava più a costruire nulla, e sì che c’era molto da ricostruire.

Dismise la sua azienda. Da benestante, divenne povero. I figli e le figlie andarono a lavorare a Bologna o nelle campagne. Sua figlia Orsolina, madre di mia madre, andò a fare la mondina, cioè a raccogliere riso nelle risaie. Un’altra figlia, Angiolina, andò a lavorare in campagna. Sposò un contadino, Silvio, anche lui forte come una quercia e per giunta il fucile più temibile della pianura Padana: nessuno poteva batterlo nel tiro a segno e nelle gare di caccia. Ebbero tre figli, Renzo, Remo e Arrigo, di cui i primi due grandi tiratori di fucile. Il primo, Renzo, era chiamalo ‘l’Indiano’, perché da bambino andava al fiume con l’arco e colpiva i pesci con le frecce mentre saettavano nella corrente. Sparava con la mira di Calze di Cuoio nell’Ultimo dei Mohicani. Colpiva un tappo di sughero a cinquanta metri. E poi certe notti nella sua camera da letto entravano gli spiriti, e non sempre erano benigni, a giudicare dalle lotte che si sentivano e dalle quali all’alba l’Indiano usciva stremato.

Sapeva fare anche molte altre cose, l’Indiano. Curava con le mani, per esempio. Una volta – ma parlo di molto tempo più tardi, quando io ero già adulto – le sue mani grandi e calde in due minuti mi fecero cessare il dolore di un torcicollo. La chiamavano pranoterapia, ma lui lasciava che gli altri dicessero che possedeva poteri magici, e si scherniva con modestia, dicendo che non aveva fatto nulla per meritarli. “Mah. So mica perché” diceva. Una signora della Pieve lo seguiva ovunque. Lo assecondava come una segretaria, lo proteggeva come una madre, lo portava a visitare i suoi pazienti come un autista e lo venerava come un santo. E forse lo accudiva come un’amante, ma questa era solo una supposizione, benché la supposizione fosse unanime in paese. Nel casolare di campagna dell’Indiano, tra galline che ruzzavano nell’aja e mucche che ruminavano con trasognato fatalismo, c’era sempre una fila di uomini in attesa. Gli chiedevano che con le sue mani placasse una sciatalgia, aggiustasse un ginocchio arrugginito, sciogliesse un gomito bloccato, rendesse elastica una vecchia schiena irrigidita, purificasse un fegato ingrossato o sanasse un intestino tormentato da spasmi.

Qualcuno, già che c’era, gli chiedeva anche come contrastare un periodo di sfortuna o come riconquistare l’amore della moglie. Lui, in nome di quella magia che non aveva meritato, dava consigli: “Non toccare chiodi per un mese. Qualcuno ti regalerà dei chiodi, ma tu, ve’, non li accettare mica”. Oppure: “In un giorno dispari falle bere un bicchiere di vino, ma nel vino devi mettere tre gocce di menta, strizzate da foglie fresche, e un goccio d’acqua dopo averla fatta bollire con dell’origano. Ma ve’, non troppo origano”. “E perché i giorni dispari?” “Perché i giorni pari non funziona. So mica perché. A sa brisa parché. Nuèter a sän ignuran. Siamo ignoranti.”

Questo era l’Indiano, figlio dell’Angiolina, nipote del mio bisnonno Aroldo. Ma ora torno al racconto del dopoguerra. Morì la mia bisnonna. Il bisnonno, ormai solo e privo di mezzi economici, non ebbe altra soluzione che ricoverarsi in un ospizio. Qualche tempo più tardi mio zio Beppe, il marito di una sua nipote, andò a trovarlo all’ospizio. Lo trovò in un angolo di una camerata, solo, con gli occhi rossi di uno che aveva appena pianto.

“Mo’ ve’, Aroldo, non state bene? Non vi trovate bene qui?”. Aroldo confessò che no, non si trovava bene. “Mo’ perché non lo dite ai vostri figli, Aroldo?” “No, macché. Non se la passano bene neanche loro, hanno i loro problemi. Cosa volete che vada a chiedere a loro!” disse il bisnonno Aroldo. E poco dopo aggiunse: “Va’ là, Beppe, non dite niente ai miei figli. È meglio che pianga uno solo che non farne piangere sette”.

Mio zio Beppe allora se lo portò a casa con sé quella mattina stessa e il bisnonno Aroldo visse serenamente con mio zio Beppe e mia zia Rina fino all’ultimo dei suoi giorni. L’ultimo dei suoi giorni non era molto lontano, solo qualche anno.

Lo conobbi un’estate, a quel tempo. Ero un bambino. Aroldo passava le giornate estive seduto nel giardino della casa di mio zio Beppe, all’ombra dei filari della vite che produceva uva fragolina. Un patriarca. Un patriarca nobile e gentile. Così mi apparve. Un vecchio alto, eretto, con il cappello, la giacca scura, una lunga barba bianca ed entrambe le mani appoggiate sul manico del bastone. Sorrideva a noi bambini, che giocavamo correndogli intorno come se fosse uno spartitraffico.

 “Tu sei Paolo, il figlio della Lora, la figlia dell’Orsolina, eh? Di’ mo’, quarti anni hai?” mi chiese. “Otto, nonno. E tu quanti ne hai?” chiesi a mia volta. “Oh, ve’, io ne ho quasi cento” mi rispose sorridendo.

Fu l’ultima volta che lo vidi. O l’ultima che io ricordi.

Sua figlia Orsolina, mia nonna, rimase fascista per tutta la vita. “Mio padre era fascista e io non lo tradisco” mi diceva. La figlia di Orsolina, mia madre Lora, sposò mio padre antifascista, figlio di antifascisti, che aveva tutti gli zii e i cugini antifascisti: per esempio suo zio Armindo, suo zio Errico (che per vent’anni, fino alla fine della guerra, conservò una foto di Matteotti nascosta nel doppio fondo di una tavola da pranzo), suo zio Primuccio (diminutivo di Don Primo, dove Don indicava un titolo nobiliare acquisito per via di matrimonio) e suo cugino Elio. Nessuno ricorda che nella nostra casa o nella cerchia della nostra famiglia sia mai avvenuta una lite per ragioni politiche. Infatti a quel tempo non c’era neppure bisogno di sopportarsi. O di essere tolleranti. Non ce n’era motivo.

Tratto da Paolo Di Mizio ,“Teneri lupi”, Capponi Editore

 © RIPRODUZIONE RISERVATA copyright www.ilgiornaledelricordo.it

News » Il racconto della Domenica - Sede: Nazionale | domenica 14 maggio 2017