"Come un'isola" di Monika M.

23 ottobre 2016

di Monika M.
 
Ferma, accanto al treno appena arrivato, si guardò attorno spaesata. L'odore di bruciato che proveniva dai binari, unita all'agitazione che provava ed allo stomaco ormai vuoto, le dava la nausea. Per l'emozione non aveva mangiato nulla oltre la colazione ed era ormai ora di cena. Sospirò pesantemente facendosi coraggio e afferrò il manico del trolley rosa che aveva portato con sé. Lo aveva pregato di non tardare, l'idea di star sola in stazione la agitava e credendo ormai di aver capito il tipo aveva preferito dargli appuntamento in un bar subito fuori l’edificio, lì seduta ad un tavolo, invisibile alla curiosità altrui, si sarebbe sentita meno nervosa. La vista dell’ orologio fermo sulle 10,25 fu un ulteriore colpo allo stomaco, tra circa tre mesi cadeva l’anniversario dei trentacinque anni dalla strage, socchiuse gli occhi, deglutendo e scacciando quel dolore che affiorava assieme alle immagini indelebili.
Ordinò un succo di frutta e per non fissare ogni avventore che entrava nel bar come una disperata tirò fuori dalla borsa il libro che aveva portato con sé, Orgoglio e Pregiudizio, distratta si immerse in un ennesima lettura del romanzo che conosceva a memoria. La gonna corta di jeans veniva costantemente sistemata dalla sua mano nervosa, da seduta le sembrava fosse troppo corta e non faceva che tirare l'orlo verso il ginocchio, nel vano tentativo non si sollevasse nuovamente. Gli anfibi bianchi e le calze parigine dello stesso colore si intonavano alla carnagione nivea delle gambe, in vita sua non aveva mai passato una sola ora a prendere il sole e la sua pelle era di un pallore quasi innaturale. Un veloce sguardo all'orologio, con al centro delle lancette la marca del caffè servito nel bar, le annunciava che come temeva e si aspettava lui era in ritardo. Cominciò a sbuffare indispettita, neanche al primo appuntamento riusciva ad esser puntuale, come non lo era stato neanche a quelli telefonici che avevano preceduto quell’incontro. Telefonate preparatorie che lui aveva sapientemente dilazionato e centellinato in tutto l’arco dell’anno che era trascorso dal primo contatto tra loro. Lucrezia si era convinta lo facesse apposta, creava un aspettativa alta per poi deluderla e mai aveva taciuto le sue impressioni scoccando le accuse con la sua lingua velenosa.
-Questo lo offre il signore lì al bancone- si sentì dire dall'impacciato barista, improvvisatosi cameriere.
Alzò lo sguardo sorpresa e guardò l'uomo ad occhi sgranati. Imbarazzata agitò la mano in un gesto di rifiuto categorico, guardandosi attorno nella speranza che lui arrivasse. Niente affatto scoraggiato l'uomo afferrò la birra che stava consumando al bancone e si diresse verso di lei. La bottiglia di Corona venne poggiata vicino al suo libro facendola sobbalzare di sorpresa mentre lo sconosciuto si sedeva al suo tavolo, fissandola con occhi attenti.
-La prego, sto aspettando una persona. . . . - lo informò impacciata.
Si perse in due occhi scuri , severi ed esigenti, trasmettevano una sensazione di inflessibilità. Il corpo che appariva duro come il marmo infondeva sicurezza, perfettamente a suo agio sedeva rilassato sulla sedia davanti a lei, mentre la bocca appena schiusa, morbida allo sguardo, sembrava attendesse qualcosa.
-Lo so. . . -si limitò a dire.
Lucrezia in imbarazzo cercò il modo di liberarsi dall'invasore, agitata afferrò il libro cercando di riporlo velocemente nella borsa aperta sulla sedia accanto, scorgendo il sorriso divertito di lui nel leggerne il titolo.
- Respira. . . . - continuò l’invasore mentre lei al suono di quella parola si bloccò del tutto.
Quella parola, la voce, solo ora la riconosceva. L'aveva ascoltata circa un anno prima per la prima volta al telefono, ma il volto no, non era quello che lei o meglio la sua fantasia aveva immaginato. Era bello, molto più bello di quel che aveva creduto. Ingannata forse dall’età di lui lo aveva immaginato molto diverso e maledisse il suo dar per scontato quel dettaglio non ininfluente, lui non avrebbe dovuto essere affascinante o meglio lei non doveva ritenerlo tale. In attesa lui le sorrideva divertito. Nonostante le fosse seduto davanti Lucrezia avvertiva una distanza siderale da lui, come se tra loro ci fosse una coltre di spesso ghiaccio a dividerli e non solo la immaginava, ma le sembrava di percepirne il gelo sulle braccia nude. Era inquietante. Lucrezia avvertì un terrore che la immobilizzò, come trovarsi improvvisamente di fronte ad un lupo famelico che ti fissa, pronto a impedirti ogni via di fuga, deciso a divorarti.
Confusa sentì uno stordimento impossibile da dominare e alzandosi di scatto vide il mondo girarle attorno. La presa forte di lui la sorresse afferrandola saldamente per il braccio che lei prontamente strattonò via da lui, allontanandosi a passi svelti da quell'incubo. No così non andava, rischiava di sentirsi troppo coinvolta, lo ammetteva solo ora a se stessa, già le telefonate tra loro erano state per lei inebrianti, ora sostenere anche il suo pericoloso fascino era davvero troppo. Come le era venuto in mente ? Si chiese e correndo si allontanò da quella follia. Il cellulare vibrò avvertendola del messaggio ricevuto, “ Torna immediatamente qui!” lesse, mentre una rabbia a lei sconosciuta le straziava lo stomaco.
-Roma ! - disse sicura al bigliettaio mentre guardava l’orario dei treni.
 
UN MESE DOPO
- Questa volta la tariffa sarà raddoppiata - disse di spalle mentre si preparava un infuso, indifferente, come se lei neanche fosse lì. Indossava unicamente il sotto della tuta, di un grigio chiaro, che morbida lasciava intravedere la forma delle cosce forti. Lucrezia guardava quel corpo così diverso dallo stereotipo di moda in quegli anni da non saper come poterlo descrivere. Era grosso, ma non grasso, potente non esile ma tornito, morbido in quelle rotondità turgide. Carezzò indisturbata con gli occhi quella schiena, quella pelle che avrebbe fatto invidia anche alla donna più curata. Osservandolo si chiese se non fosse volutamente lì a mostrare quel che offriva, una sorta di creazione del desiderio da generare, un bramare che non lasciava più scampo. Lucrezia scosse il capo per togliersi quei pensieri dalla mente. Era stanca e l'unica cosa che desiderava era dormire. Guardò l'orologio, nella cucina dal ricercato design, segnava le 23, 34 e sbuffando si chiese quanto dovesse durare quella messa in scena da parte di lui.
-Non ho problemi di soldi - rispose cercando di apparire sicura di sé, ed era vero, gli unici problemi che non aveva erano quelli economici.
Gli occhi di lui finalmente la guardarono, voltandosi, ma le sembrò, senza vederla. Lucrezia era una bella ragazza, abituata ad essere guardata, notata e corteggiata ed ora quella sua indifferenza le bruciava dentro come mai le era accaduto. Era sempre stata lei quella indifferente a tutto, adesso invece era furiosa con lui e si chiese come le fosse venuto in mente di pagare per questo. Imbarazzata non riusciva a sostenere quello sguardo, attento, penetrante e crudele. Sei finita dritta nella sua tana, pensò, rabbrividendo vistosamente. Quel silenzio prolungato sottolineava ancor più la divergenza tra il suo imbarazzo e la sicurezza di lui e si rese conto di star in apnea solo quando lui interruppe quel silenzio ordinandole con voce severa e priva di calore.
-Respira !-
Un fremito la oltrepassò da capo a piedi non per il comando in sé ma perché, inspiegabilmente gli obbedì.
Non si erano più sentiti dopo la sua fuga dalla stazione. Solo un unico messaggio c’era stato tra loro, inviato da lui due settimane dopo. Riportava solamente data, ora e luogo, esattamente quello che stavano vivendo in questo momento. Lucrezia ricordava perfettamente la gioia che aveva provato nel riceverlo e la preoccupazione subito dopo percepita. Rappresentava per lei una nuova opportunità di vederlo, non lo aveva perduto. Quella mano virtuale che lui le aveva teso per lei era stata un emozione incontrollabile tanto da farla piangere come una diga che erosa nulla tiene più.
Un ghigno apparve sulla bocca di lui, un trofeo. Era come se egli riuscisse a percepire ogni sua vibrazione e frequenza del pensiero e delle emozioni. Lucrezia aveva l’idea che nessun angolo dentro sé sarebbe rimasto a lungo inesplorato ed in fondo era quello che voleva, per quello lo stava pagando, per far si che dall’abisso riemergesse quella parte sconosciuta, ma che era causa della sua perenne sensazione di inadeguatezza, che da sempre si trascinava dietro.
Lui si carezzò la bocca con il pollice e Lucrezia fissandolo si chiese se recitasse, se fosse una parte che non lasciava mai e se ne convinse, interpretava costantemente quel ridicolo ruolo da seduttore. Nonostante avesse una quindicina di anni più di lei lo trovava molto attraente, allo stesso tempo questa differenza di età la imbarazzava, o forse non era l’età, ma quel suo modo di fare che la faceva sentire una bambina smarrita e confusa.
Allungò verso di lui la cartellina contenente le sue ricerche facendola scivolare sul tavolo, lui piazzò una mano sopra il cartoncino e con gesto disinvolto ed elegante la fece ruotare in modo fosse ora nel giusto verso rispetto al suo sguardo, anche in quel gesto poco naturale lei vi lesse una voglia di far apparire sempre tutto sotto controllo. Nessuna apparente emozione emergeva da quel volto controllato quanto i gesti che faceva. Non la aprì. Non lesse una sola riga, come se la cosa non gli interessasse, eppure lo pagava per quello, per eseguire quello che lì dentro lei gli chiedeva di farle.
- Io ho delle regole. Appena le infrangi il rapporto si interrompe. Ora va a dormire pensaci e domani voglio la risposta !- detto questo si alzò, lasciando la ricerca abbandonata sul tavolo.
In un attimo Lucrezia si rivide camminare nei corridoi del museo della tortura di Torino ubicato nel Castello di Mazzé. Nei bui sotterranei, suggestivamente illuminati, aveva potuto studiare le macchine ed i metodi di tortura della Santa Inquisizione, collezioni per lo più provenienti dalla Spagna. Ripensò alle gigantografie che illustravano l’utilizzo delle macchine di tortura ed allo sgomento provato per il chiarimento riportato sull’ utilizzo di tali fotografie atte a portar a conoscenza il pubblico in visita della ferocia umana e non certo per soddisfare sadici spettatori. Rabbrividì ricordando il suo stupore nel chiedersi chi mai potesse goder di tale crudeltà e con il cuor gonfio di terrore portò il suo sguardo verso di lui.
Fissò la cartellina, mentre in testa riascoltava quella frase. Era lì per quello, perché tutta questa sceneggiata del pensarci una notte ancora ? Faceva parte del suo copione ! Si rispose infine indispettita, ma a lei non riguardava. Stanca si stiracchiò e lo seguì. Questa volta lui non era venuto a prenderla alla stazione, dopo la sua fuga precedente, le aveva dato l’indirizzo dove presentarsi. Preso un taxi aveva raggiunto la casa in periferia ed ora lo stava seguendo in uno stretto e lungo corridoio. Lucrezia si guardava attenta attorno per cercar di capire se quella abitazione fosse la sua dimora o solo quella che usava per lavorare, nessuna foto era disseminata in giro, nessun oggetto personale o libri e questo la portò a pensare alla seconda ipotesi fatta.
Non aveva la porta. La sua stanza non aveva la porta. Questa fu la prima cosa che notò, agitandosi. I suoi occhi dovevano esprimere tutto il disagio provato a quella scoperta inattesa, rivelando il timore della sua intimità violata.
- Non preoccuparti non verrò a spiarti mentre sei sotto la doccia. Quella porta - la indicò con un gesto deciso, puntando l’indice, - è solo un simbolo, nulla di te sarà a me precluso, nascosto. Non avrai angoli in cui io non arriverò, sarà tutto mio, pensieri, paure ed emozioni. Conoscerò quello che tu stessa non vuoi vedere, ammettere, accettare. -
Non aggiunse altro e se ne andò, cosa altro poi poteva esser aggiunto a quelle parole? Lucrezia non seppe dirsi ne come ne perché, ma fissando la schiena di lui che si allontanava recitò a memoria l’invocazione del diavolo che la Orsolina, detta la Rossa, rilasciò torchiata dall’inquisitore.
-Che il Diavolo sia il mio potere ed io il suo dominio e sbatto il bastone a terra tre volte invoco il Diavolo in questo modo : O Diavolo vieni da me, o Diavolo vieni da me, o Diavolo vieni da me. . - Quella formula l’aveva sempre fatta sorridere, ma non ora. In quel batter tre volte il bastone rivedeva la piccola Dorothy del Mago di Oz che per tre volte batteva i tacchi prima di esprimere il desiderio. Orsolina, antica Dorothy vissuta nel 1539, donna dalla rossa chioma e ladra di bestiame accusata di praticar riunioni diaboliche e stregoneria. Orsolina torturata con i carboni ardenti, nel castello di Montecuccolo, aveva raccontato del sabba a cui aveva partecipato, il suo verbale rappresentava per gli studiosi come Lucrezia un documento storico prezioso per comprendere le accuse che l’immaginario sulla stregoneria aveva diffuso. Era così suggestionata da lui da ritenerlo un demonio ? Si domandò rabbrividendo Lucrezia.
Rimasta sola si chiuse in un abbraccio carezzandosi le braccia come a voler confortare se stessa. Gli occhi fissarono il soffitto, restando insonni, per molte ore e come la piccola Dorothy ora anche lei desiderava tornare a casa. Un mese, avrebbe dovuto resistere circa un mese lì con lui. Era il tempo che lei aveva fissato come prova. Rilassata nel letto, la frase di lui lentamente iniziava a scavare ed erodere la sua determinazione, sbriciolando la sua sicurezza, intaccandola crudelmente. Era arrivata con la convinzione di volerlo fare, questa volta, eppure quel divieto che le impediva di infrangere le regole che lui avrebbe imposto la inquietava. Addormentandosi, quella prima notte pensò sorridendo che non era una cosa definitiva, poteva dir basta ed andar via quando voleva questo lui le stava dicendo, non sarebbe mai stata obbligata a far nulla ! Si illuse.
 
PRIMA SESSIONE

Lucrezia imbarazzata sedeva per la prima volta al tavolo da condividere con lui per la colazione, per sfuggirgli lasciava vagare il suo sguardo nella stanza fingendo disinvoltura. Un volantino pubblicitario che usciva a metà dal secchio della spazzatura la ipnotizzò. Lesse mentalmente - Ristorante sito in località Crevalcore - quella località la conosceva già, almeno lo aveva visitato nei suoi studi e cercando nella sua memoria vi trovò Lucia in Bertozzi detta la Bartolina ed un sorriso affettuoso le si dipinse sul volto. Lui, che non si lasciava sfuggire un sola sfumatura delle sue emozioni, le chiese a chi stesse pensando. Lucrezia restò per un attimo a bocca aperta, lui non aveva detto a cosa, ma a chi ! Era come non aver maschere o veli davanti quello sguardo attento ed imbarazzata rivelò il soggetto dei suoi pensieri. 

- Levatrice originaria di Faenza viveva a Crevalcore nel 1636. Attira su di sé l’interesse dell’inquisizione bolognese poiché la comunità locale sospetta di lei per le insolite guarigioni che le vengono attribuite. Abile conoscitrice del corpo femminile dona nascita o contraccettivi, è facile intuire come ella detenesse un potere scomodo per la chiesa che se ne sentiva esclusa. Il vicario del luogo durante la deposizione dei testimoni la definirà Eccellentissima Strega. . . – Si interruppe fissandolo sorseggiare calmo il suo caffè. Lo stava annoiando pensò e non aggiunse altro.

- Quando e cosa ha fatto sì che ti appassionassi a questo argomento ? – Le chiese poi.
Lucrezia cercava in sé una risposta che forse ignorava, sapeva che dal tempo delle scuole medie aveva iniziato una sua personale ricerca sulle streghe ma cosa avesse dato inizio al tutto doveva averlo dimenticato.
- Ecco sì ora lo ricordo ! Dopo aver letto il nome della rosa … - disse euforica mordendosi poi le labbra, ma perché doveva condividere questo con lui ?
- … E la mia piccola Lucrezia si appassiona alla rosa … - osservò lui con un sorriso enigmatico.
- La rosa … - ripeté Lucrezia sorridendo soggiogata. Alcuni lettori del romanzo si erano convinti che il titolo, il nome della rosa, fosse proprio da attribuire alla giovane accusata di stregoneria e recitò la frase conclusiva del film incantata dal suo interlocutore – Di tutti i volti che dal passato mi tornano alla mente più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo eppure … dell’unico amore terreno della mia vita non avevo saputo, ne seppi mai … il nome. – Abbassò lo sguardo lucido di emozione, quella sua fragilità la metteva sempre in imbarazzo.
- Ma prima, la mia piccola Lucrezia, ha avuto un altro eroe oscuro, che l ‘ha portata a studiare segretamente menti dannate … - lo disse fissandola, tanto che Lucrezia pensò che se non lo avesse detto lei, lui lo avrebbe letto tra le pieghe della sua mente come avrebbe potuto fare con una pergamena da srotolare. Stinse le spalle come a voler sparire su quella sedia e rimase un attimo in silenzio.
- Jack lo squartatore … - sputò poi fuori.
A dieci anni aveva collezionato cartelline intere su ogni serial killer esistito. Studiava vita e delitti cercando ogni connessione mentale tra l’uomo ed il mostro. La riportò abilmente a sé recitando un passo di Charles Baudelaire.
- Adorabile strega ami tu i dannati ? Dimmi, conosci l’irremissibile? Conosci il Rimorso dai dardi avvelenati cui il nostro cuore serva da bersaglio? Adorabile strega, ami tu i dannati ? – Scandì quelle tre parole: strega, ami e dannati, così da indurla a pensare fosse un riferimento a lei e lui così esplicito da indispettirla. Stava insinuando che lei era attratta, innamorata di lui? Lo ammonì con sguardo feroce così da rimetterlo al suo posto.
-Cosa ti ha spaventato la scorsa volta ?- le chiese con un sorriso sfrontato.
Come la sera prima indossava solo il sotto morbido della tuta grigia e Lucrezia pensò che evidentemente egli amava dormire così. Infastidita notò la sicurezza che esprimeva nel sentirsi attraente anche così, anche con quell’aspetto trascurato da primo risveglio, nonostante la barba non fatta ed i capelli lasciati esattamente come il cuscino li aveva acconciati durante la notte. Fissò i piedi nudi di lui e questo richiamò alla sua mente un lontano ricordo: il maestro di nuoto, incontrato per una sola volta il giorno della prova del corso di nuoto. Quell’uomo tornò per una attimo nella sua vita, richiamato dai ricordi abbandonati, incatenati ad un passato a cui ella mai ripensava. Nitidamente la scena scorreva ora davanti ai suoi occhi come un film proiettato solo per lei. La piccola Lucrezia imbronciata con ancora l’accappatoio addosso si rifiutava di lanciarsi in acqua come e con gli altri bambini. L’istruttore spazientito, accostandosi e piegandosi un po’ per guardarla in faccia, le domandò cosa ci fosse che non andava, cosa la spaventasse della piscina e fu allora che una delle prime stranezze di Lucrezia la inchiodarono ad un lettino da psicanalisi.
-Io sono morta affogata! Ecco perché ho paura dell’acqua. - rispose con una convinzione tale che l’istruttore rimase senza parole, cosa avrebbe potuto poi risponderle? Riaccompagnata dai genitori consigliò loro di mandarla in terapia più che a nuoto, e così fu.
Non gli rispose. Non che non se lo fosse chiesta più volte anche lei o non avesse una qualsiasi risposta da dare, forse semplicemente non voleva ammettere di aver avuto paura e lui aveva puntato proprio lì, facendo una domanda chiara e sapeva che ora si aspettava una risposta altrettanto esplicita, si chiuse in un silenzio che sperava fungesse da riparo. Lui la fissò, impassibile, come se volesse comunicarle, ho tutto il giorno, lo paghi tu e posso star qui ad attendere che ti decidi a rispondere anche per ore, ma questo non bastò a sbloccare la situazione. Lucrezia non riusciva ad uscire dal suo guscio, fragile eppure resistente.
-Se hai deciso di restare, come ti ho detto ieri, ci sono delle regole che mai dovrai infrangere. Io non recito una parte. Io sono questo e non accetto non ci sia sincerità nel rapporto. Dovrai sempre dirmi tutto, emozioni, sensazioni, paure, pensieri inconfessabili, tutto, o così o non mi interessa. -
Lucrezia lo ascoltava incredula, lei pagava e lui esigeva? Le sembrava davvero troppo, infondo lei gli aveva chiesto altro, riportare alla sua memoria ricordi che ella sapeva di avere, il resto non era affar suo. Accigliata si chiuse in un silenzio ancor più, se possibile, profondo, non intendeva dargli più del necessario ed in quella cartellina che aveva preparato, a suo avviso, c’era già tutto.
Versò nuovamente il caffè nelle due tazzine che li dividevano, posizionate al centro del piccolissimo tavolo quadrato della cucina. Lucrezia guardandolo si domandò se fosse stato scelto apposta quel tavolino per dar l'idea che lui potesse afferrarla in qualsiasi momento, stando così vicini e mentre si perdeva nei suoi pensieri lui con una naturalezza che avrebbe fatto apparire logico e accettabile ogni cosa le chiese
- Raccontami del tuo tentato suicidio, e dico tentato perché sei ancora qui … - lo disse con la stessa tonalità con cui si potrebbe domandare ad un ospite, tè o caffè ? Lucrezia sentì un gelo avvolgerla partendo dai piedi fino a salir alle tempie che ora sentiva pulsare come roboanti tamburi, per poi avvertire il corpo afflosciarsi di colpo come un sacco ormai vuoto. E mentre avrebbe voluto urlare, il silenzio ora, la imprigionava. Lui lo sapeva, non aveva supposto che forse lo aveva fatto, ma ne era certo e la cosa la sconvolgeva. Era così evidente il suo senso di inadeguatezza da farla girare con un segno di riconoscimento che ella stessa ignorava, stampato in faccia? Abbassò il volto e mentre pensava di precipitare in un’umiliazione senza fine sentì la voce di lui, ora dolce, dirle
- Non fuggire ancora, devi fidarti di me. -
Lucrezia, a quelle parole, avvertì un nodo sciogliersi dentro. Come se una mano inesistente, ma percepita, avesse mollato, lasciando andare una sofferenza radicata. Si rilassò come non le era capitato mai, sempre tesa ad issar su la sua corazza invalicabile che la proteggesse da tutto. Lei, fragile cristallo, destinata ad una società di pesanti ed invadenti pachidermi. Fidarsi, una vera impresa, ma la situazione poteva permetterlo unicamente perché non vi era un legame affettivo, lei da quell’uomo non si aspettava nulla che non fosse un mese del suo tempo che ella gli pagava profumatamente, finito il quale sperava di ottenere quei ricordi che la tormentavano da bambina, ricordi di una vita passata.
Non vi era molto da dire, in realtà non lo aveva mai messo in atto, solo pensato. Pensato ogni giorno per anni, ma era rimasto un’idea. Solo un idea si era detta crescendo, cercando forse di sminuire quell’insana fissazione che l’avrebbe fatta sentire, forse, ancora più inadatta alla vita se solo lo avesse preso seriamente in considerazione come reale progetto. La finestra del bagno dell’appartamento dei suoi, posizionata all’ultimo piano della palazzina era l’accesso a quel mondo del solo immaginato. Si sedeva sulla scarpiera bianca, posta sotto la finestra, le persiane accostate ed agganciate erano la sicurezza a cui si affidava mentre inclinando il busto guardava quel vuoto che la alleggeriva di quella insostenibile ed insopportabile responsabilità del vivere. Il marciapiede del palazzo, di bianca pietra era ciò che fissava fino ad immaginare il suo corpo senza vita lì caduto. Sadicamente ne studiava la forma bizzarra per via degli arti, che cadendo, si sarebbero spezzati, chiedendosi poi se attorno alla testa si sarebbe formata una chiazza di sangue e se questo avrebbe macchiato il candido camminamento, orgoglio dei condomini che lo curavano amorevolmente. Fu più facile di quel che credeva, confidare ciò che mai a nessuno aveva raccontato. Ma non fece in tempo a sentirsi fiera del suo lasciarsi andare che lo sentì chiedere.
-Cosa ti ha fermato dal farlo seriamente?- Non sembrava mai soddisfatto di quello che gli veniva donato ed insaziabile già chiedeva altro ed ancora. Lucrezia rimase in silenzio, nuovamente, e lui rispose per lei - … il pensiero di fallire, di non riuscire neanche in quello e di dover affrontare, poi, il giudizio nello sguardo della gente. - concluse quasi annoiato, alzandosi.
La cartellina, con la sua ricerca, giaceva ancora e nuovamente dimenticata sul tavolo. Lucrezia sospirò pesantemente, non comprendeva, eppure era facile, lei lo aveva spiegato bene quello che da lui si aspettava, cosa voleva egli facesse. Una sorta di sicurezza si era radicata in lei fondandosi su quella certezza che sarebbe stata lei a condurre la cosa con la sua richiesta, ma il modo di fare di lui la destabilizzava, non lo comprendeva e quando non capiva qualcosa si impuntava come un mulo ostinato che non ne vuol sapere di procedere. Ed ora proprio non comprendeva. Non capiva quel suo ostinarsi nel comprendere cose che non lo riguardavano, forse, concluse, soppesava semplicemente la fragilità della mente di lei per dosare la forza e l’intensità dell’impatto che egli avrebbe poi causato.
Il primo giorno era iniziato e Lucrezia si domandava cosa la attendesse e si rese conto che proprio il fatto che nulla ancora accadeva la caricava di insofferenza per quell’attesa, era inoltre troppo intelligente per non comprendere infastidita che questo era da lui voluto. Era come un arciere che andava pazientemente tendendo l’arco per poi scoccare solo alla massima tensione possibile. Così attese, seduta dove lui l’aveva lasciata. Finalmente tornò con un foglio scritto con una elegante grafia, l’aspetto formale lo faceva apparire una sorta di contratto a tutti gli effetti, la data era quella del giorno corrente, venne posizionato sul tavolo e spinto con un gesto sicuro sotto gli occhi affinché lo leggesse.
- Qui - disse, indicando uno spazio lasciato bianco per lei - scrivi i tuoi limiti, i no assoluti e poi firma. -
Notò solo allora che era richiesta la sua firma sul bordo inferiore del foglio e l’unico pensiero che la pervase era che mai avrebbe messo il suo cognome su un documento del genere. Afferrò la penna che lui le aveva porto insieme al foglio e scrisse nello spazio a lei riservato: No ad atti sessuali di nessuna natura. Pose infine la firma, apponendo solo il nome, Lucrezia.
- Lucrezia e … ? - chiese lui con voce severa come a voler intendere che esigeva un cognome dopo quel nome. Lei afferrò la penna e scrisse, dopo il suo nome, E Basta! Lo guardò con aria di sfida dritto negli occhi, ancora una volta pensò che non gli avrebbe dato nulla più dello stretto necessario. Anche se lo nascondeva bene era chiaro che lui si stava divertendo, forse per lui era insolito ricevere certe risposte, ma pensò lei, avrebbe fatto bene ad abituarsi. Lei non aveva un carattere facile, forse non era eccessivamente sicura di sé, ma neanche una sottomessa. Rimase un attimo perplessa, non sapeva come lei avrebbe dovuto chiamarlo, come doveva rivolgersi a lui, ma non le importava tanto non lo avrebbe mai chiamato con quell' appellativo che forse era in uso tra loro. Lei, Signore, non lo avrebbe mai pronunciato!
Ricordava molto bene come fosse stato difficile convincerlo, si faceva in genere pagare, era vero, ma non per quello, le cose nella sua vita erano ben distinte, così le aveva detto con tono sprezzante. Aveva ceduto poi, senza dare una spiegazione, acconsentendo alla sua richiesta. Rilesse il documento che ribadiva la necessità lei obbedisse o l’accordo sarebbe decaduto prima che lui lo sfilasse dalle sue mani ed andasse a riporlo chissà dove.
Il trillo del campanello di ingresso suonò energicamente riportandola al presente, lui le ordinò con tono autoritario di aprire la porta e di andare poi in camera sua . Così fece, aprì la porta ad una donna di mezza età, curata ed elegantemente vestita. Il profumo che emanava era indubbiamente costoso come i vestiti che indossava, il rumore dei tacchi di lei le si infilò nel cervello quanto quella voce fastidiosa. Entrò come fosse in casa sua. Si guardò intorno infastidita, aprì la borsetta e mise in mano a Lucrezia cinquecento euro.
-Chèri, caro, veloce ho poco tempo, mio marito tornerà dal club tra un ora ! –
Lucrezia aggrottò le sopracciglia mentre si domandava cosa stesse mai mettendo in scena quella donna, finché lui non uscì completamente nudo dalla stanza dicendo solamente
-Allora andiamo ! -
Lucrezia rimase con i soldi tra le dita per un qualche istante, incredula. Lei lo stava pagando e lui usava il suo tempo per lavorare con le sue clienti? E che razza di comando era di star in camera sua mentre quella già iniziava ad urlare e gemere? Buttò i soldi sul tavolo della cucina ed in preda ad un ira feroce afferrò il giacchetto ed uscì dalla casa sbattendo la porta. Camminò così in fretta che non ebbe modo di prender punti di riferimento, i piedi martellavano il terreno come la collera la sua mente. Di tutto quello che gli aveva chiesto di fare lui non stava rispettando nulla, non stava mettendo in atto quelle pratiche che lei aveva ricercato e studiato, pratiche feroci per cui le occorreva un carnefice moderno ed era solo per questo che si era rivolta a lui e per null’altro. Si bloccò poi di scatto guardandosi attorno, doveva aver camminato per una mezz’oretta sotto l’inconsapevolezza della rabbia e non conosceva minimamente Bologna. Era stata in giro per mezzo mondo ma nulla o poco conosceva dell’Italia ed ora si rese conto che era uscita dalla casa di lui senza soldi e senza la possibilità di orientarsi. Fortunatamente ricordava l’indirizzo a memoria, cercò un taxi e accomodandosi nervosamente sul sedile posteriore sussurrò l'indirizzo.
Solamente suonando il campanello, lì fuori sul pianerottolo, si rese conto di aver già disubbidito. Forse lui non l’avrebbe ripresa, pensò atterrita Aprì la porta in accappatoio fresco di doccia, lei abbassò subito lo sguardo e disse solo
-Devo pagare il taxi. . - sperando bastasse come via di fuga. La lasciò passare senza dir nulla.
Il silenzio che le destinava ora era ancor peggio che esser sgridata, pensò. Seduta sul letto avvertiva lo stomaco contorcersi per la fame, ma temeva che se fosse andata in cucina avrebbe dovuto affrontarlo e la cosa non la entusiasmava. Forse per lui il contratto era già sciolto e proprio mentre una stana disperazione si affacciava in lei, lui entrò nella stanza senza porta con un vassoio colmo di tartine ed un bicchieri di succo di arancia che posizionò sul comodino ampio.
- Perché oggi sei andata via, hai disubbidito lo sai?- le disse, ma la voce non aveva il tono del rimprovero, piuttosto quello di chi vuol capire. Lei lo guardò incredula, come poteva farle quella domanda ? Nuovamente si chiuse nel suo silenzio, rendendosi conto della sua incapacità di ammettere che la presenza di quella donna l’aveva infastidita.
-Gelosa? - chiese allora lui proprio per pungolare quell’orgoglio che sapeva l’avrebbe fatta scattare come una molla. Farfugliando Lucrezia cercò di scagionarsi da quella accusa e più lei arrancava più lui appariva divertito e sistemandole una ciocca ribelle dietro l’orecchio la carezzò con uno sguardo colmo di dolcezza dicendo solo, prima di lasciarla mangiare
- Dovrai imparare a chiede, Lucrezia, se ti da fastidio che io riceva qui quelle donne mentre sei con me, in questo mese, devi dirlo. Non dar mai per scontato che la gente sappia ciò che tu vuoi, quello che vuoi devi prendertelo da te. -
La lasciò sola e quelle parole la invadessero come una liberazione. Lucrezia comprese che era schiava di sé stessa, delle sue ostinazioni, ossessioni e manie, del suo voler sempre dimostrare di non aver bisogno mai di nulla e di nessuno,atteggiamento dettato infondo solo dalla voglia di non venir delusa. Mangiò quello che lui doveva averle preparato con le sue mani e per la prima volta gli fu grata. Lo raggiunse nel salotto, trovandolo immerso nella lettura, non appena ella entrò nella stanza il libro venne chiuso e la fissò. Lucrezia appoggiata allo stipite della porta appariva quasi solo un ombra, così illuminata dalla luce che proveniva alle sue spalle. Con voce flebile disse solo...
 
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